Città

La nostra città è una città di piazze grandi e di strade dritte che si incrociano e dividono la superficie in parti ordinate e precise; è una città in cui non puoi perderti neanche se vuoi, quando ne percorri i lunghissimi viali.

Il grattacielo Intesa San Paolo, la Mole, una mongolfiera bianca ancorata al terreno che adesso non si alza più: quando mi sono trasferita qui mi sono creata in questo modo la mia bussola monca. La periferia non la frequentavo ancora, restavo nel ventre sicuro del centro. Hai fatto anche tu così i primi tempi, mi hai raccontato.

Nostra, questa città, lo è diventata nel tempo. Non ci siamo nati e quindi non le apparteniamo davvero. O forse le apparteniamo più degli altri proprio per questo, perché nell’amore guadagnato nel tempo si intravede qualche cosa che somiglia alla dedizione, alla fortuna, alla riconoscenza per grazia non meritata.

La nostra città è piena di tram spesso affollati che fanno molto rumore tra gente discreta che alza poco la voce. Quella volta che mi volevo ammazzare avevo scelto il tram. Il 13 mi era sembrato quello giusto, perché era sempre il 13 a riportarmi a casa da lezione nei giorni di pioggia più fitta e più violenta. Quei tram tagliano in due la piazza. La sventrano.

È lì che ho incontrato in questi anni quello che mi ha toccato il culo, la ragazza con il fiore di plastica e i capelli tinti male che urlava al telefono contro una fidanzata “traditrice e troia”, la mia vicina di casa che profuma di un profumo dolce e dozzinale e va ogni giorno al mercato con il suo carrello di stoffa e con i suoi pochi denti. Affetto, familiarità, la percezione di una direzione pure dopo lo schianto, dopo il nero.

Nemmeno una lacrima quel pomeriggio.

La scelta della fine non è mai fatta di disperazione. Ha più il colore della rassegnazione: la fine mi sembra grigia, la fine mi sembra sfocata e inquinata come il cielo della nostra città quando è gennaio e pare che debba nevicare da un momento all’altro, e poi non nevica.

Quando ho avuto paura davvero, quel pomeriggio, ho preso il telefono dalla borsa. Ti ho chiamato, ti ho detto “dimmi qualche parola ché voglio morire però ho paura”. Tu mi hai chiesto dov’ero e io ti ho risposto “nella nostra piazza”. Stavo lì in mezzo, immobile.

Nostra perché lì in mezzo ci sentiamo niente ed è quello l’unico sentimento che coltiviamo insieme davvero. Lì ci siamo visti la prima volta, ci siamo seduti al tavolo nell’angolo di un bar troppo caro. Abbiamo ordinato il tè. Hai finito anche il mio, hai messo la bocca sullo stesso lato della tazza su cui io avevo messo la mia. Non finisco mai le cose che ordino, ho un problema coi fondi.

Quando ti ho chiamato quel pomeriggio tu come i burattinai, come in un gioco sullo schermo con le vite virtuali da portare avanti, mi hai spiegato per telefono cosa fare. Lo fai sempre: mi spieghi, mi insegni, mi fai credere che ne sai più di me. E io quindi ti ascolto.

Mi hai detto di voltarmi verso il fiume e di guardarlo, di trovare una panchina vuota e sedermi e respirare: uno, due, tre, uno, due, tre.

E io, che faccio sempre quello che mi dici tu, ho trovato una panchina vuota mi sono seduta. Solo qualche singhiozzo asciutto e la gamba sinistra che tremava. “Che vedi?”, mi hai chiesto ancora e io non sapevo se respirare o risponderti. Avrei voluto chiederti anche quello. Ti ho detto che c’erano poche nuvole, che la chiesa mi stava di fronte e che stava per scendere il buio e io quindi iniziavo ad avere ancora più paura: “l’atrocità dei tramonti”. E che continuavano a passare dei 13, quelli verdi e più vecchi, ma che nessuno sembrava quello giusto.

Erano tutti pieni, ché la gente aveva finito il turno, ma io ne volevo uno vuoto come una vera eroina tragica e grottesca in un teatro deserto. Mi hai detto di contare le colonne della chiesa, di guardare la collina, di prendere le due pillole che tengo nel portafogli e nel frattempo il cielo non era ancora diventato nero.

Poi è arrivato un tram senza gente dentro ma mi è venuta in mente mia madre che sistema le arance nel cestino di paglia che tiene sempre sul tavolo della cucina. E non mi sono lanciata sulle rotaie. Ci sono soltanto entrata, nel tram, ed eri ancora al telefono con me: uno, due, tre, uno, due, tre. Mi sono seduta poco dietro l’autista e dopo un po’ abbiamo smesso di parlare anche se non abbiamo riattaccato.

Due minuti dopo la piazza era già lontana.

Quindici minuti dopo sono arrivata a casa e mi sono infilata, con i vestiti sporchi, nel letto.

Ho sognato di essere un piccione morto e spiaccicato sull’asfalto che le ruote dei mezzi continuano a investire senza sosta, mentre qualcuno continua a sedersi al tavolo all’angolo di quel bar della prima volta, “due caffè, grazie”, finendo o non finendo i fondi.

E le ruote dei mezzi lo schiacciano, contro i sanpietrini della nostra piazza della nostra città, fino a quando le sue zampe non sono più zampe e il suo petto non è più petto.

Un racconto di Rita Sanzi

Illustrazione di Francesca Paola Turco

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