Sapone, muffa e vaniglia

«Buongiorno.»

La signora Rizzo s’accomodò.

Era l’ennesimo lunedì da cravatta e lampadario. Pioveva da giorni, e ormai gli unici raggi di sole rimasti in città erano quelli sulle cartoline dei peromanti a Piazza Navona.

Andrea accennò ad alzarsi, ma la donna gli servì un rifiuto a mo’ di scala reale.

«No, stia pure seduto. Cerchiamo di sbrigarci.» Lo sciabordio della Clodia, dabbasso, ne illiquidiva le parole. «Mi aspettano al Pertini e c’è traffico.»

Dietro di lei intanto, con l’espressione di chi usa i neuroni solo per fottere e obbedire, stazionava un gorilla che puzzava d’auto blu; vestiva un gessato Brioni da un paio di mila euro e una squisita faccia da casellario – il classico fenotipo della polizza sulla vita.

Forte del suo distacco professionale, Andrea li squadrò senza scomporsi e annuì.

Una bava di levante dai Parioli aveva soffiato la Bella e la Bestia nel suo ufficio e in soli tre minuti l’aria era s’era già imbolsita. Aleggiava un certo puzzo di portoni bene.

«Signora Rizzo.»

«Mi chiami Carmela.»

Attorno a loro cospirava un odore ambiguo, ed era un profumo più familiare di quanto Andrea non riuscisse ad ammettere, avvolgente, caldo, dai toni dolciastri e rassicuranti; ma camuffati fra le pieghe del silenzio, ecco che a volte apparivano sentori di marcio, aciduli come gli strascichi di sapone sulle vecchie a messa la domenica: tirava un’oscura brezza di democrazia cristiana.

«Carmela» ripeté lui, «perché ha deciso di rivolgersi alla mia agenzia?»

«Mio marito mi tradisce, signor Santini.»

«Sembra che lei abbia già risolto il caso, allora.»

«Ho comunque bisogno di prove» lo redarguì seria. «Voglio le foto.»

Andrea evitò di chiedere i dettagli. Ne aveva ricevute parecchie di mogli tradite, e tutte gli piombavano davanti in due soli modi: curve come Maddalene penitenti o così avvelenate da poterlo strangolare a mani nude; la Rizzo, invece, pareva dal tappezziere a scegliersi le tende del soggiorno, perciò beata ignoranza, si disse Santini.

«D’accordo» replicò l’investigatore.

D’accordo, sì.

Non ci voleva Kojak per capire che a una settimana dalle politiche un incarico del genere non era la trita storiella di corna, ma parte essenziale, forse, d’un disegno più complesso – di quelli che ti gettano nel purgatorio del Gruppo Misto, in pasto ai talk show o a fare il sindaco di Santa Ciolla-in-Aspromonte, seicento anime e Pro Loco.

«Benissimo» chiarì subito la donna, prima di sfilare un regalino dalla sua Hermès e porgerlo allo spione. «Allora abbiamo finito. Mi richiami quando avrà le foto.»

E mentre lei gli preparava anche un appunto a penna, Santini esaminò la busta gialla.

Era bella sgrava, intuì l’uomo soppesandola. Quattro mesi d’affitto, minimo.

«Non costo così tanto» rivelò.

L’altra, un piede già fuori dall’ufficio, stirò la gonna, s’alzò e gli cennò di zittirsi.

«Lo so» asserì, col gorilla che la seguiva calmo. «Il resto è per la discrezione.»

A quel punto Santini li vide uscire, poi recuperò il bigliettino della Rizzo.

Sopra c’era segnata una targa.

Incassati un paio di favori dai suoi vecchi compagni di Via Cincinnato, Andrea aveva rintracciato la macchina il giorno successivo; era una Kadett del Novanta che nemmeno il peggior sòla di Tor Bella avrebbe avuto la cazzimma di vendersi a qualcuno, e soprattutto l’ultimo catorcio al mondo in cui t’aspetteresti di beccare un deputato.

Così, dopo un’interminabile viaggio dalla Balduina al casello della Roma-L’Aquila, Andrea aveva continuato a pedinare l’onorevole Nicola Rizzo per un’altra ora, finché il buon segretario di Rinascenza Cattolica non s’era fermato all’imbocco d’un tratturo appena fuori da Scurcola Marsicana – uno dei tanti luoghi ameni che Cristo aveva saltato durante il suo tour per Eboli.

Dal fondo della strada, nel frattempo, s’intravedeva un casale.

Mentre il calar del sole lordava d’arancio quel sentiero pieno di sterpi, l’investigatore s’accodò all’uomo, ma nonostante la natura li circondasse coi suoi aliti di resina e fanghiglie umide, l’unico odore a spiccare sugli altri pareva il profumo di Rizzo.

Echi di sapone, muffa e vaniglia si mescolavano a vicenda e ancora una volta, com’era accaduto nell’ufficio, soffiava un’oscura brezza di democrazia cristiana.

Avvicinandosi alla corte del casaletto, Olympus a penzoloni e ottica nella sinistra, Santini soffrì l’ennesimo attacco di quella sensazione che puoi dire solo in francese.

Della storia però, quasi fosse una zanzara, continuava a sfuggirgli un dettaglio.

E quando alla fine s’infrattò dietro un grosso pino – con gli ultimi scampoli di sole ad aiutarlo nella messa a fuoco del teleobiettivo – una mano sconosciuta sbucò dal nulla e spalancò una finestra sulla camera oscura della sua ignoranza.

Allora ogni cosa s’impressionò in un attimo.

Rizzo aveva appena bussato alla porta della cascina; ad aprirgli era giunta una magrolina ragazza non più che liceale, rossa, e i cui vestiti, da settimane, avevano lo stesso, identico profumo dell’onorevole. Con la destra tutta un tremore, a quel punto, Andrea sfilò di tasca il cellulare e chiamò il primo numero della sua lista rapida.

La giovane svicolò in fretta dal viscido abbraccio di Rizzo e rispose.

«Papà?»

Santini riagganciò.

Un racconto di Antonio Amodio

Illustrazione di Rebecca Frietsche

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