Vuansaponetaim

1

Il suo uomo, alla fine, si ripresentò a casa.

Scomposto, in dieci pezzi.

Era giù, stazionava davanti l’ingresso del palazzo. Dentro due grandi valigie di pelle. Color vinaccio. Una, conservava gli arti. Segati in due parti. Altra, il tronco e la testa. Separati.

Qualcuno citofonò, lei s’alzò dalla sedia. Nemmeno troppo sorpresa, data l’ora.

Lasciò il caffè sul tavolo, si sistemò la spallina del pigiama, mise in fila un certo numero di gesti pigri: i passi, una mano tra i capelli, il piede che sposta il gatto, il recupero di una ciabatta. La respirazione.

Rispose: «Chi è?».

Una voce maschile: «Leti’, scendi. Riprenditelo».

Una pausa, e poi un motore borbotta e si mette in moto.

Aprì la porta d’ingresso: non era più notte, non era ancora l’alba; prendeva forma quell’interstizio di luce dentro il quale la vita evapora con più facilità.

Ignorò l’ascensore, scese le scale. Tastò i gradini, uno dopo l’altro. Due piani.

Pensò alla lentezza. Pensò alla stabilità. Si mise a contare i cazzi disegnati sulle pareti, quelli che eiaculavano li trovò festosi.

Pattinò nell’androne. Si avvicinò al portone. Attraverso il vetro osservò le due valigie, tendevano a dilatarsi sotto il peso del contenuto.

Non aprì; anzi, si assicurò che il portone fosse chiuso. Sullo sfondo un piccolo motocarro a tre ruote, da raccoglitore abusivo di scarti di materiale ferroso, scompariva lento.

Risalì, rientrò nell’appartamento, riprese la sua tazza di caffè e s’affaccio alla finestra.

Puntò l’orizzonte. Il mare era calmo.

I fantasmi di un’umanità ovattata galleggiavano dentro il vecchio porto. Due gabbiani smisero di volteggiare, si posarono sulle valigie e le beccarono con slancio, frenesia e ferocia.

2

La città è sveglia. Una telefonata anonima. Le forze dell’ordine. Il ritrovamento. La presa d’atto. I documenti nella tasca di una valigia. Il riconoscimento.

Rino Mulé, anni 43. Operaio. Saltuario. In nero.

Rino Mulé, detto Vuansaponetaim.

A vent’anni, una condanna per molestie sessuali su due quattordicenni. Consenzienti. Erba in cambio oscenità. Un gioco: lasciarsi insaponare. Solo insaporare. Dentro una vasca da bagno.

Tre anni e sei mesi di reclusione per l’impatto scenico di una pelle giovane su cui far colare del sapone liquido che diventa schiuma. E il profumo, e il candore, e la malizia, e l’erezione.

E infine acqua, a denudare.

In un primo momento, le ragazzine fecero il nome anche di tale Angelo Spaio, detto Ferrovecchio. Mulé ne negò la presenza; le vittime, su Spaio, alla fine, ritrattarono.

In carcere, un detenuto, vissuto nel Bronx, con una predisposizione a sottomettere i suoni della lingua inglese per ricavarne effetti, giochi e orgoglio cosmopolita, gli affibbiò il soprannome.

Un’allusione a futura memoria.

3

Quartiere Epicentro. Edilizia popolare. Qui Rino Mulé non è mai piaciuto.

Anche se era taciturno. Anche se era schivo.

Echi al suo passaggio:

«Guarda chi c’è?!?»;

«Chi c’è?»;

«Vuansaponetaim!».

Risate.

E lui muto, ingobbito. Racchiuso.

La sua donna, invece sì; lei piaceva.

4

L’ispettore Farah Mastò scende dall’auto di servizio. Ha trentasette anni, è incinta e assuefatta al male. L’area è perimetrata, non ci sono curiosi. Il cuore dell’Epicentro non ha smesso di battere, si è soltanto eclissato. Le forze dell’ordine sono ospiti non graditi. E allora, si declinano verbi come attendere e celare.

Confabula con gli agenti, la Mastò. Dà un’occhiata al contenuto delle valigie. Avrebbe preferito rimanere a incocciare il suo couscous. Accarezza il profilo del suo sesto mese di gravidanza. Si ferma, le fa paura l’idea di sé: è umano trovare soltanto ordinaria quella macellazione? soltanto lavoro? soltanto un fastidio che incrocia il quotidiano?

5

Il caldo autunnale lo definì: vischioso. I sei giorni di indagine: inaspettatamente proficui.

Il suo vice, sudato e muscolare, disse: sì. Tacquero, per non infierire sulla banalità.

La Mastò spostò lo sguardo sui cazzi disegnati alle pareti; già visti in posti simili, salendo scale come quelle. Si chiese quale relazione vi fosse tra violenza e ossessione fallica.

L’eiaculazione è gioia o beffa? L’ultima ingenuità prima del nichilismo, si rispose.

Un ingresso angusto, un appendiabiti a muro, un tavolo da cucina. Il laminato plastico. Il cerchio sbavato lasciato da una tazza di caffè, in un angolo. La linea di confine che separa il decoro dall’incuria, in evidenza. I vetri della finestra proiettata sul porto: brillanti.

Letizia Musso, rimase in piedi, poggiata al lavello della cucina. E attese le domande. In mano teneva un accendino.

L’ultima volta che ha visto suo marito?

Tre settimane fa, ed era solo il mio compagno.

Mi scusi.

Non importa.

Perché non ne ha denunciato subito la scomparsa?

Era successo altre volte, era sempre tornato.

Che rapporti ha lei con la famiglia della vittima?

Nessuno.

E con la sua?

Nessuno.

Da chi ha saputo che il cadavere dentro le valigie era quello del suo compagno?

Da voi.

Lei è la stessa Musso Letizia che nel 1997, assieme a sua cugina, è stata vittima di molestie da parte di Mulé?

Sì, sono io.

Il vice ispettore fissò il suo capo, poi si spostò sull’avvenenza piena e decadente della Musso: fianchi d’attracco, labbra mulatte, occhi nebbiosi, capelli neri. Ricci. Soffici, fino all’esasperazione.

Che rapporti intrattiene lei con Angelo Spaio, detto Ferrovecchio, cugino del suo compagno e frequentatore, ci risulterebbe, di questa casa?

La Musso inspirò e spostò lo sguardo fuori. Sul porto e sull’agitazione.

Un racconto di Giovanni Buttitta

Illustrazione di Rebecca Frietsche

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