Il curniciello

“Sentite condoglianze”.

Nina Varriale lo ripeté tre volte davanti allo specchio, e quando lo diceva, la sua bocca diventava una linea dritta, più dritta delle cordicelle sul balcone su cui aveva appeso le sue mutande bianche a vita alta.

“Sentite condoglianze”, e le rughe della sua fronte si allargavano come certi cerchi degli alberi, come i pini del Vesuviano.

Come si fa a sembrare più belle quando si dice “Sentite condoglianze”?

Provò a dirlo cinguettando un po’, modulando la voce come se fosse la presentatrice di Telecapri, poi scelse un tono di voce neutro, che ricordava le signore incipriate che leggevano la preghiera dei fedeli alla Chiesa del Gesù e che indossavano solo le Hogan.

Quelle signore sapevano bene come tenersi i mariti, tutti impiegati al Centro direzionale.

Però, nemmeno quel tono andava bene, pensò Nina. Lei doveva cercare di condensare in quel “Sentite condoglianze” trent’anni di attesa, lacrime di rimmel sul cuscino e pacchetti di Marlboro morbide fumate una dietro l’altra, come caramelle.

“Sentite condoglianze”, e Giuseppe l’avrebbe guardata, mentre sua moglie era bella e sorridente nella sua bara di mogano, con le labbra ancora dipinte di rosso, come tutte le signore della Napoli del Vomero.

Nina decise di modulare “Sentite condoglianze” in modo che la rughe si intonassero con le labbra sottili: i cerchi dei pini vesuviani si abbinavano alla linea delle labbra, che si erano assottigliate grazie ai dispiaceri, alle sigarette e all’aria di certi vicoli pieni di fuliggine.

Finalmente la moglie di Giuseppe se n’era andata: non avrebbe potuto fare molto, quel tumore se la stava mangiando da dieci anni, pace all’anima sua.

Nina aveva letto il manifesto funebre e le era rimasto impresso quel “Ne dà il triste annuncio il marito Giuseppe Scognamiglio”. Si era sentita tremare come certe piante di mare, quando c’è il vento forte vicino alla spiaggia di Bacoli.

Marito. Marito non suo, marito di un’altra per venticinque anni, marito di una bella donna che lavorava alla banca di via Scarlatti e a cui tutti si rivolgevano dicendo “Signo’”.

Marito di un’altra, dopo che a lei l’aveva lasciata su quell’altare di Via Foria, in mezzo ai Cristi penitenti e alle Madonne di cartone, quando avevano solo vent’anni e i denti da latte in bocca.

La sua scusa? “Nina, io non mi so comportare. Non mi posso sposare. Siamo piccerilli, dobbiamo ancora mangiarne di pane tuosto, io e te”.

Poi, dopo averla lasciata, le aveva dato un curniciello rosso e le aveva detto “Questo te lo devi cucire nel reggiseno, ti proteggerà dagli sguardi che non vuoi”.

Peccato che l’unico sguardo che Nina avrebbe voluto era solo quello di Giuseppe, che le aderiva sulle cosce come una ragnatela quando si mettevano nello scantinato di via Depretis.

Peccato che dopo un anno che l’aveva lasciata sull’altare, Giuseppe si era preso un’altra. Che adesso non c’era più.

“Sentite condoglianze”.

Nina aveva aspettato trent’anni solo per pronunciare quella frase e giurò sul sangue di San Gennaro, solido o liquefatto, che lei quella frase non l’avrebbe sbagliata.

Indossò una delle sue brutte mutande bianche a vita alta e si mise addosso una tunica color mattone bruciato che aveva preso alla Duchesca.

Negli anni in cui aveva aspettato Giuseppe aveva rinunciato a essere una femmena, si era dedicata soltanto ai suoi quattro nipoti, alla mensa dei poveri e alle recite teatrali a Port’Alba, e quando le chiedevano “Ma perché non ti sei maritata?” lei rispondeva solo “Non è capitato”.

Nina era un animale femmina, senza padroni, che si aggirava tra i vicoli e le strade di polvere e salsedine, ma in realtà un padrone ce l’aveva sempre avuto, ed era a lui che pensava prima di dormire o quando pregava la Vergine di Pompei, anche se aveva tentato di ricacciarlo via, come quelle bestemmie che ti vergogni anche solo di pensare.

E quel curniciello rosso lo teneva sempre nel reggiseno, unico vizio di un’esistenza passata ad aspettare e fumare.

“Sentite condoglianze”, e pensò che una tunica mattone bruciato non andava bene a un funerale. Ma cosa bisogna indossare a un funerale, in mezzo alla puzza di incenso e all’Eterno Riposo?

Entrò nella chiesa di San Domenico giusto giusto al momento delle condoglianze.

Lo vide, da lontano: la pelle del viso gli aderiva sulle ossa degli zigomi come una patina grigia, e quando sorrideva gli si vedevano i denti, uno per uno, come confetti. Era invecchiato un po’, ma rimaneva quello scugnizzo che le frugava sotto il ventre e poi le diceva “Non lo faccio più”.

Nina ripeté a bassa voce “Sentite condoglianze”, come una litania.

Arrivò il suo turno di dare le condoglianze.

Tutte le prove che aveva fatto le apparvero ridicole, esistevano solo gli occhi color boscaglia di Giuseppe, che guizzavano come lumicini in mezzo alla raggiera delle sue rughe, e che erano gli stessi di quando era uno scugnizzo di vent’anni.

“Giuse’, sentite condoglianze”.

E Nina non era più la conduttrice di Telecapri o la signora che legge la preghiera dei fedeli, era solo la donna rimasta imbalsamata in una stanza del centro storico per anni, a diventare vecchia senza crescere, senza essere madre e moglie, ripensando a quel giovane che tanti anni prima le aveva dato un curniciello rosso.

Giuseppe la guardò.

E Nina dovette appendersi a un bancone della chiesa per non svenire, quando Giuseppe le disse “Piccere’, io e te avevamo un discorso da finire”, guardando la punta del curniciello rosso che sbucava sotto la tunica marrone bruciato.

Un racconto di Monica Acito

Illustrazione di Francesca Paola Turco

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