Il collo di bottiglia e la frutta sciroppata

Non aveva mai visto tante mimetiche armate e tanti colletti bianchi tutti insieme. Nonostante metà del suo armadio fosse occupato da camicie in decine di gradazioni di bianco, dimenticava che anche il suo colletto lo fosse quando puntava l’indice contro il mondo. E le ragioni che l’avevano portato nella capitale non erano dissimili da quelle delle altre camicie bianche nel suo campo visivo.

La conferenza globale era patrocinata da un neocostituito conglomerato di colossi industriali e società offshore, come un dibattito di macroeconomia e politica internazionale. Legati e commissari dei governi erano accreditati come liberi partecipanti, osservatori esterni o consulenti legali. Quasi del tutto normale, non fosse ospitata nei tre livelli più bassi dell’ipogeo antiatomico al di sotto del complesso governativo nella zona di perpetua interdizione di Strasburgo. Tutti i cinquantasette partecipanti seduti al grande rettangolo, con l’aggiunta di un centinaio di collegamenti satellitari, portavano cartellini con le credenziali di accredito, ma nessuno perse tempo a presentarsi. Le credenziali non contavano nulla.

Nel grande salone di cemento antracite in cui era stato allestito il ricevimento, Marcel riconobbe un pilota di Formula E e un famoso chef molecolare della televisione, si chiese cosa ci facessero lì, perfettamente mescolati al gotha dell’edilizia, della farmaceutica, dei combustibili. Il catering non aveva lesinato su Grand Siècle e Dom Perignon P5; 2037 e 2049, annate straordinarie per i pochi vitigni sopravvissuti in Champagne. Al sapore non era rimasto nulla che ricordasse il vino, pensò. Le poche decine di migliaia di bottiglie ancora in circolazione erano frutto di assemblaggi in laboratorio di vendemmie decennali e sperimentazioni biodinamiche. La percentuale di terreno coltivabile sulla litosfera si riduceva a ritmi apocalittici. Entro un decennio le coltivazioni su suolo vivo sarebbero quasi del tutto scomparse, come pure tutte quelle specie troppo delicate e inadatte alla crescita sollecitata in microambienti. Il dossier digitale che stava visionando ne parlava diffusamente.

In meno di un secolo, querce, baobab e migliaia di altri vegetali, come fu per il rinoceronte di Sumatra, la maggior parte delle volpi volanti, per il ratto gigante di Tenerife oltre mille anni prima di Cristo, per i pinguini imperatore e le comunità amerinde, sarebbero del tutto scomparsi. Il dossier digitale che scorrevano col dito straripava di profezie inquietanti che non suscitavano più che qualche rigurgito di formale disapprovazione. Le ultime seicento pagine erano dedicate all’analisi demografica dell’anno passato: undici miliardi di persone sparse su duecentosessantuno paesi delle Nazioni Unite, cui se ne aggiungevano due miliardi e trecento milioni residenti nelle repubbliche e stati de facto non riconosciuti e privi d’osservatori all’Assemblea. Lasciarono ai presenti il tempo per documentarsi, ogni tanto qualcuno esternava un riferimento al logo scelto dalla Europe Holding Eng. che compariva sui biglietti da visita bianco opaco, sui pannelli all’ingresso e in ogni interfaccia grafica: l’apriscatole.

Quando il principale relatore, Olympus Klaas, attraversò la porta ellittica a tenuta stagna, fu la prima domanda con cui venne salutato. Più di una mano s’alzò prima che potesse presentarsi, tutte spinte dallo stesso fremito di curiosità: perché un apriscatole?

Beh, disse, estraendo un barattolo di prugne gialle sciroppate dalla valigetta, come sapete, la frutta è una delle culture che più ha sofferto la sterilizzazione del suolo. Le serre non possono soddisfare il fabbisogno di undici miliardi di organismi. Ma abbiamo ancora riserve per circa quattrocentomila scatole da un chilo di frutta sciroppata. 

E questo sarebbe un termometro demografico?, ridacchiò un avvocato di Taipei.

È il simbolo del prossimo collo di bottiglia evolutivo che l’homo sapiens dovrà attraversare per raggiungere il suo incerto avvenire. Come per la prima era glaciale e la catastrofe di Toba, implacabili forze sottoporranno la nostra specie a una deriva che ne causerà l’assottigliamento genetico, ma che potrebbe consegnare alla discendenza un habitat meno infausto.

Gli uditori erano indispettiti dai vaniloqui. Tutta gente pragmatica, col solo idioma dell’economato. 

Signori, voi siete qui in rappresentanza dell’uno percento. Voi sarete i prossimi amministratori delle colonie Lunar3. La nostra fragile biglia blu è ormai un sasso morente. Per fare in modo che sopravviva o che trascorra i suoi ultimi millenni in relativa serenità, abbiamo abbandonato la passiva attesa di una cometa di passaggio.

In cambio della vostra adesione al piano di risoluzione, sarete imbarcati sui prossimi vettori. In minimi termini: saremo noi ad esercitare una forza cataclismica interna. Invieremo dieci barattoli in ciascun continente, contenenti una mutazione del virus Marburg-EM67B, un’ibridazione dal decorso controllato, concepita per proliferare in progressione geometrica per una finestra di tempo prestabilito. Entro un mese, ciascuna carica dovrebbe arrivare a un picco di contagio superiore ai venti milioni, per poi inattivarsi appena superato l’apice della curva. Con l’ovvia tutela immunologica dell’uno percento, allargabile nel prossimo anno a due miliardi. Abbiamo approntato un vaccino temporaneo.

Di piani emergenziali e risoluzioni ne avevano visionati abbastanza da impermeabilizzarsi ai contenuti. Non sconfinavano mai oltre la teoria, per quanto buoni potessero sembrare. L’esposizione del relatore si risolse in un algido mutismo.

Marcel frantumò il silenzio: perché?!

Perché l’evoluzione è una lotta  che premia ingegno e adattabilità, non certo la morale che ci ha portati qui, oggi, a stabilire con quale modalità somministrare l’eutanasia a un pianeta terminale.

Un racconto di Giacomo Cavaliere

Illustrazione di Nora

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