Lattine

Leva. Altra leva. Pulsante rosso. Altra leva. Mel imposta gli ultimi comandi della morsa pneumatica, poi si abbandona mollemente sulla poltrona davanti alla plancia di comando. Gli occhi vagano, pigri, sulle ampie vetrate rinforzate.
Dalla cabina di pilotaggio della Secutor non si possono vedere bene i bracci colossali, le centinaia e centinaia di metri di metallo ricoperto da polvere di diamante che già si stanno animando. Mel sente l’intera nave vibrare, gemere come un cetaceo siderale morente mentre le batterie di motori grandi quanto palazzine danno vita alle fauci meccaniche. L’operatore può godersi sereno le fasi della procedura, i movimenti che conosce a memoria, ripetuti decine e decine di volte; soltanto questo mese la Secutor ha già trovato e aperto quindici stazioni orbitanti abbandonate: Mel era di servizio durante l’apertura di dodici, e ha impostato personalmente i protocolli operativi in undici casi.
Ora si allunga sulla poltrona, stiracchiandosi un po’ e concedendosi uno sbadiglio. All’inizio provava un certo gusto nel vedere la morsa metallica della Secutor serrarsi attorno al vasto guscio abraso delle stazioni, aprirle con un unico brutale taglio delle mascelle– guardale, ben affilate, fameliche, allungarsi nell’abisso siderale – per poi risucchiarne il carico tramite i tubi aspiratori. La guerra da poco conclusa si è lasciata dietro una disperata devastazione, e soprattutto tante occasioni propizie: incrociatori alla deriva, avamposti evacuati, e una miriade di stazioni disabitate ancora cariche di generi alimentari, munizioni, batterie e tanto altro. Una manna, un gregge senza pastore, a disposizione di lupi dai denti d’acciaio, come quelli dell’equipaggio, come quelli di Mel.
L’operatore guarda la forma sgraziata della stazione, un enorme cilindro grigio, qualche luce di segnalazione ancora lampeggiante, l’involucro esterno tutto ammaccato dalle collisioni con gli asteroidi. La lama superiore della Secutor ha già agganciato una delle basi circolari del cilindro, mentre l’altra indugia, attraversando più lenta il vuoto cosmico per ultimare la presa su quella sorta di tappo. Quando anch’essa tocca il guscio della stazione, Mel si mette ritto sulla poltrona, schiacciando la faccia sui vetri per vedere meglio.
Il lavoro, forse, sa ancora dare qualche soddisfazione. A parte sentire i colleghi parlare di lui con rispetto, chiamarlo “l’apriscatole” – un nomignolo che gli solletica piacevole le meningi – si deve riconoscere che viaggiare per la galassia ad aprire relitti dimenticati garantisce un certo quantitativo di scoperte, di curiosità. Naturalmente, uno svantaggio c’è, sempre più pesante: viaggiare tanto, troppo, trovarsi in settori galattici semi-sconosciuti e selvaggi, come quello in cui hanno beccato questa stazione…sì, gli manca casa, gli manca la Terra, la sua casetta lungo la spiaggia, le conchiglie sulla sabbia.
Eppure, oggi sta vedendo qualcosa di nuovo, qualcosa che spezza la solita routine. Mentre guarda i bracci giganteschi della nave iniziare a mordere voraci il chilometrico scudo metallico della stazione, Mel si scopre confuso. Fa una telefonata veloce al collega nella sala apparati ottici, annuisce un paio di volte, riattacca il ricevitore. No, non si è sbagliato: quella stazione ha dei grandi, grandissimi tagli che percorrono la base circolare del cilindro, quasi dove i denti della Secutor si sono già attaccati. Ma quei tagli sono vecchi, chiusi – rimarginati? – e si possono vedere solo da vicino. Forse qualcuno ha già aperto quella scatoletta, forse qualcuno si è già fregato il carico.
Le morse stringono ancora, lente, inesorabili, una bocca che addenti un manicaretto croccante e gustoso. Poi è un sobbalzo, un tremito, una scossa che percorre le viscere della nave, risale per le pompe pneumatiche, per le batterie al plasma, attraverso i pavimenti e sino alla spina dorsale di Mel. La tenaglia si è fermata, le zanne bloccate sullo smisurato e intonso cilindro. L’operatore si spinge ancora di più sui vetri, le pupille fisse sul monolito ciclopico. Le pinze, bloccate? Forse ha sbagliato la routine di aggancio?
Inaudito, inammissibile, inconcepibile. Mel guarda spaurito i comandi, le luci rosse lampeggianti. Controlla velocemente sui monitor, avvia i controlli automatici – no, è giusto, ha fatto tutto bene, e allora cosa, cosa impedisce al cilindro di aprirsi?
Poi, la stazione orbitante trema. Le spaccature rimarginate vibrano, fremono, come se qualcosa vi scorresse dentro. Il gigantesco coperchio si smuove, si apre dall’interno.
E mentre guarda, mentre osserva la sconfinata lattina aprirsi, Mel si trova straniato, trasportato per un istante, nel ricordo, sulla Terra; è a casa sua, anzi è sulla spiaggia, la spiaggia nera cosparsa di pattume e detriti, bagnata appena dall’acqua giallastra dell’oceano; e tra la sabbia e il pietrisco, ecco, tante conchiglie luccicano al sole, conchiglie smosse dalla marea o dai grandi paguri che le hanno scelte come dimora. Più in là, anche un barattolo di latta cammina spedito, trascinato dalle lunghe zampe del crostaceo che lo abita.
Ma ora Mel non vede il mare, la spiaggia, il sole, no. Resta solo la lattina, la pantagruelica lattina, le enormi chele viola che la aprono dall’interno, spingendo via i denti della Secutor e lì, nel profondo, nel buio della stazione-conchiglia, il baluginio gelido e furioso di due occhi colossali.

Un racconto di Francesco Corigliano

Illustrazione di Chiara Troisi

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