Sotto le bende

Tornano a poco a poco, recita una voce dal profondo. Tornano a poco a poco, ripete, e vibrano le vene, il sangue, le ossa. Nel buio, le altre voci tacciono, perché il buio è il suo dominio, come il sonno e i confini del sonno, e i territori più tetri della veglia. Tornano a poco a poco, ripete una volta ancora. Poi bussano alla porta, apro gli occhi e ricompare il tempo: lampioni fuori dalla finestra, il torpore di una giornata da recluso; ricompare lo spazio: L’urlo e il furore aperto sotto i gomiti, il letto sfatto, la porta.

Penso: Sono seduto alla scrivania. Mi sono addormentato leggendo. Stanno bussando alla porta.

«Posso entrare?»

Una parte periferica di me – lingua e denti e micromuscolatura – formula una risposta adeguata, e intanto si sforza di ricordare come sono i miei occhi quando sorrido. Vuole farmi apparire sereno sotto le bende, ma deve sbrigarsi, perché la porta tra poco si aprirà-si sta aprendo-si è aperta. Un’altra parte di me – rughe sulla fronte, pelle tesa sugli zigomi – corre in suo aiuto. Occhi sereni, intima. Gli occhi obbediscono.

Poi:

«Ti ho portato una fetta di panettone.»

Mia madre sulla soglia.

«Uvetta e canditi.»

Dieci passi a separarci.

«Come piace a te.»

Dieci nove otto sette sei – piccolo inciampo – cinque quattro tre due uno: piatto rosso su mani bendate, come sangue su neve sporca.

Dico: «Grazie». Poso il piatto sul davanzale e mi volto di scatto mentre una parte di me dice: Respira con la bocca e un’altra: Occhi sereni.

«Buon Natale, Mamma.»

«Buon Natale.»

Esci, mamma, esci!

Esce.

Balzo dalla sedia, mi reggo al muro, ricaccio nello stomaco i conati saliti fino alla gola. Respiro a volume basso: la parte periferica di me suggerisce di non fare rumore. La voce dal profondo sentenzia: Tornano a poco a poco, e un’altra parte di me… No: Io; Io penso: La devo buttare, quella fetta del cazzo, la devo buttare e per buttarla devo avvicinarmi al piatto e se mi avvicino è certo che vomito e mamma capisce che non faccio progressi e mi dispiace deluderla, e poi da quant’è che ho queste bende addosso? Da quant’è che non mangio?

Arranco fino allo specchio tra l’armadio e la porta. Vi è riflessa la metà superiore di un uomo con gli occhi azzurri. Questo si riconosce di lui: occhi azzurri. E una fessura di labbra screpolate. E denti che scavano nelle gengive. Il resto sono bende. Sotto le bende, parti diverse che fanno cose diverse, ciascuna ha il suo dominio e i suoi compiti. All’inizio le parti erano tante da non poterle contare, ma ogni mattina l’uomo si sveglia e ce n’è una di meno, perché c’è un tassello in più nel mosaico chiamato: Io. Devo ricordarmelo: Io. Ogni sera un piatto entra nella mia camera, ne esce intatto. Ma stasera quella fetta di panettone Io la butterò dalla finestra tappandomi il naso, e ratti e piccioni e corvi tremanti banchetteranno con ciò che resta di uvetta e canditi dopo un volo di sette piani. Buon Natale, bestie che arrancate nel cemento e nel gelo. Buon Natale.

Il piatto esce dalla camera buia senza che l’abbia toccato. Avvolto nelle coperte – sotto le coperte le bende, sotto le bende le parti di me – fisso l’oscurità ascoltando la voce dal profondo che recita: Tornano a poco a poco, e lo ripete, ancora e ancora, limpida e forte, e vibrano le vene, il sangue, le ossa. Immagino che la vibrazione si propaghi alle bende e alle coperte, strappandole. Le coperte: lacere; le bende: stracciate; io: di nuovo integro. Un giorno gli occhi azzurri si sono aperti e non sapevano come vedere. Poi gli occhi hanno visto, e le orecchie sentito, le dita toccato attraverso le bende. Ma gli odori incendiano ancora le narici come un fiammifero lanciato sulla benzina, e i cibi sono un tabù rivoltante che agita organi anchilosati. Arriverà il giorno in cui riuscirò a mangiare, e quel giorno mia madre dirà, senza che io la senta: «Ecco mio figlio.» Prima di allora, ci sono la voce dal profondo che ripete: Tornano a poco a poco, e il buio in cui vibrano le vene, il sangue, le ossa, e le bende e le coperte intatte, e il sonno e le sue risposte.

Tovaglia a quadretti rossi, macchiata. Mia madre seduta a un tavolo per due, di fronte a lei un uomo. Li osservo fluttuando ad altezza spalle.

«Ne è sicura?», chiede l’uomo.

Mia madre annuisce.

L’uomo scuote la testa. Ha l’aria provata e neanche un capello.

Dice: «Se ne pentirà.»

E mia madre: «No.»

E lui: «Va bene, allora.»

E lei: «Dove devo firmare?»

E lui: «Basta una stretta di mano.»

Si stringono la mano.

Si stringono la mano e.

Si stringono la mano e sto fluttuando nel buio angusto di una bara, dove un corpo si affloscia nella mia giacca preferita, è pelle e capelli e organi sparsi, e poi pelle e capelli, e poi solo qualche residuo, la mia giacca preferita quasi vuota nel buio angusto di una bara.

Si stringono la mano e sto fluttuando sopra il mio letto, dove una gabbia toracica cresce rapida come una voglia scomoda e irresistibile. Tra le costole un cuore batte a vuoto, poi dal cuore si ramificano vene e arterie che sfiatano sangue nell’aria stantia, mentre mia madre dice ammirata: «È come un fiore che sboccia.»

Si stringono la mano e sto fluttuando per la casa in cui sono cresciuto, torno in camera e nel letto si agitano muscoli scoperti, ossa via via meno spolpate e un paio di occhi azzurri senza palpebre che fissano il soffitto senza vedere. D’un tratto non fluttuo più, ma non vedo ciò che non vedono quegli occhi. Quando torno a vedere, lo faccio da sotto le bende.

Si stringono la mano e ci sono di nuovo la tovaglia a quadretti rossi, l’uomo e mia madre, io che fluttuo ad altezza spalle.

L’uomo si alza, ma non se ne va. Vende da sempre scelte sbagliate ed è stanco di farlo.

Dice: «Il processo non sarà piacevole, signora. Né per lei, né per lui.»

E mia madre: «Ma tornerà come prima?»

E lui: «Sì. Quelli che tornano tornano come prima.»

Esita. Poi aggiunge, prima di lasciarla sola:

«Ma tornano a poco a poco.»

Un racconto di Carlo Maria Masselli

Illustrazione di Giovanni Mariani

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