La ragazza nell’atrio

Alla ragazza nell’atrio piacciono i vecchi.

La chiamo la ragazza nell’atrio perché è lì che la incontro sempre. Vivo in un palazzo dietro un marciapiede, stretto tra un palazzo e un altro palazzo. Vivo al quinto piano e per arrivarci faccio centoventi scalini. La tromba delle scale è enorme, neanche in mezzo dovesse passarci un treno, così alla base della scalinata c’è un grande spazio vuoto che il padrone di casa ha riempito di tavolini di plastica e vecchie poltrone.

Quando esco dal mio appartamento lei è sempre su una di quelle poltrone a sfogliare quelle riviste che di solito trovi dal parrucchiere. Non l’ho mai vista salire le scale, forse non abita nemmeno qui, forse viene solo per quelle riviste, forse il proprietario l’ha portata assieme alle poltrone e ai tavolini, per dare un tono all’ambiente.

La chiamo la ragazza nell’atrio perché non so come si chiama. Dal modo in cui sfoglia le pagine si capisce che anche lei viene da fuori città, quindi almeno una cosa in comune l’abbiamo. Potremmo parlare di come è difficile farsi degli amici se si viene da fuori. Di come per strada faccia sempre troppo freddo, e dentro agli edifici faccia sempre troppo caldo. Di cosa siamo venuti a fare qui, se siamo venuti qui per fare qualcosa. Lei però con me non ci parla. Mi siedo su una poltrona, lei inarca le sopracciglia, come stessi facendo qualcosa di stupido, come se non lo stesse facendo anche lei. Sfoglio una di quelle riviste che di solito trovi dal parrucchiere, lei fa un mezzo sorriso, come se fossi un bambino un po’ scemo, come se non si vedesse che qualche anno in più di lei ce l’ho di sicuro. Però non sono abbastanza.

Dico che le piacciono i vecchi perché è vero.

Quando un uomo di una certa età attraversa l’atrio, lei alza lo sguardo dalla sua trincea di carta stampata. Se vede dei capelli grigi si morde le labbra. Se scorge delle macchie scure sulle mani, incrocia i piedi. Pantaloni di fustagno alzati fino alle ascelle? Respira forte e si accarezza il collo. Forfora sulle spalle, peli che escono dal naso, orecchie enormi: la sua trincea diventa un ventaglio.

Che poi, a me, lei neanche piace.

So come suona se lo dico adesso, ma non è proprio il mio tipo. È di quella bellezza un po’ banale che si vede nelle riviste che di solito trovi dal parrucchiere. Quella bellezza fatta per vendere profumi e creme ad altre donne invece che per vendere sé stessa a un uomo.

E come uomo io non sono niente male. Faccio un’ora e sette minuti di palestra al giorno. Vado dal barbiere una volta a settimana. Sono sempre abbronzato anche se da queste parti il sole non si vede mai.

Dovrebbe essere lei a parlare di me.

A pensarmi la notte quando non riesce ad addormentarsi.

A farmi un cenno imbarazzato quando attraversa l’atrio. Funziona così: lei si sintonizza sul modo in cui la saluto e risponde abbassando il volume di una tacca.

Se la saluto a gran voce, mi lascia un tiepido “ciao” e uno dei suoi sorrisi a metà.

Se sono io a dirle “ciao”, lei stira la bocca e fa un cenno con la testa.

Se le faccio un cenno lei non alza neanche gli occhi dal giornale, e io passo il resto della giornata a riflettere sulla futilità della mia esistenza.

Sono in coda all’ufficio per gli abbonamenti che ancora ci penso. L’ufficio per gli abbonamenti  è incastrato quasi per sbaglio in un corridoio della stazione centrale della metropolitana. La stazione centrale della metropolitana è grande, è una città sotto la città. I suoi corridoi riecheggiano di passi che appartengono a persone che non si vedono mai.

La coda non è lunga. In realtà la coda sono io. Dall’altra parte del vetro c’è una signora dentro un cubicolo senza porte, le pareti tappezzate di calendari, ognuno di un anno diverso. Mi chiedo da dove sia arrivata la signora, se dietro uno di quei calendari ci sia una porticina che conduce a un’altra città, accanto alla città che sta sotto la città. Sul vetro che ci separa una fessura larga appena per far passare carte e documenti, dei fori grandi appena per far passare le parole, ma le mie lei non le capisce.

Parlo undici lingue diverse: Chamicuro, Dumi, Ongota, Liki, Tanema, Njerep, Chemehuevi, Lemerig, Kaixana, Taushiro e quella del posto da cui vengo. La signora dall’altra parte del vetro però parla solo la lingua della città, provo a farmi capire a gesti.

La signora dall’altra parte del vetro indica una cabina per le fototessere all’altro capo del corridoio.

La cabina mangia i miei soldi e sputa cinque foto.

La prima è sfocata.

Nella seconda sono tagliato dal collo in su.

La terza è una radiografia.

Quello nella quarta non sono nemmeno io.

Torno all’ufficio con la quinta.

Adesso dietro al vetro di signore ce ne sono due. Forse alla prima hanno costruito l’ufficio attorno quando hanno scavato la stazione della metropolitana. Forse si è appena riprodotta per gemmazione, mi sono perso il miracolo della vita per un soffio.

La prima signora scuote la testa. Manca qualcosa. Per fortuna la seconda è una delle quattro persone al mondo che sa parlare il Lemerig, assieme a me e a due abitanti di un’isola del Pacifico meridionale.

Compro un francobollo all’edicola che c’è a qualche corridoio dall’ufficio.

Al mio ritorno dietro al vetro di signore ce ne sono tre. Parlano e ridono e bevono da bicchieri di carta pieni di roba calda.

Passo il francobollo sotto la fessura.

La prima signora sbuffa e la seconda le fa eco, manca ancora qualcosa.

Per fortuna la terza signora è una delle sole tre persone al mondo a parlare il Taushiro, insieme a me e a un tizio che abita in Perù. Vado all’alimentari dall’altra parte della stazione centrale e compro un vasetto di carne spalmabile.

Il vasetto non passa per la fessura sul vetro, le tre signore mi fanno segno di svitare il tappo e io obbedisco. Mi fanno segno di infilare due dita nella carne spalmabile e io lo faccio. Di spingerla nella fessura e faccio anche quello.

Dall’altra parte del vetro le tre donne raccolgono la carne spalmabile e la infilano dentro a una busta. Mi fanno mettere firma e data di nascita su un modulo. Lo infilano nella busta tinta di macchie oleose. Non mi sembra un incartamento idoneo alla spedizione di generi alimentari, ma me ne sto zitto, non ho voglia di mettermi a discutere in Lemerig sulla loro professionalità e nemmeno in Taushiro.

Chiedo quanto devo pagare.

Mi dicono di far passare il portafoglio dalla fessura sul vetro.

Prendono tutti i soldi che ci sono dentro, anche le monetine che non valgono niente. Non è tanta roba, ma a quanto pare basta. Ognuna delle tre donne si stacca un capello e lo mette nella busta. Non mi sembra molto igienico, ma non dico niente, se mi sbrigo a tornare a casa faccio a tempo a farmi ignorare di nuovo dalla ragazza nell’atrio. La prima signora chiude la busta con una leccata e la infila nel muro, in una crepa tra un calendario di tre anni fa e uno un po’ più vecchio.

Quando torno al palazzo, la ragazza nell’atrio è ancora seduta su una poltrona a sfogliare una di quelle riviste che di solito trovi dal parrucchiere. Le faccio un cenno. Lei fa finta di non vedermi.

La mattina seguente trovo una busta con la sigla dell’ufficio abbonamenti infilata sotto alla porta del mio appartamento.

Nonostante i miei dubbi su professionalità e standard igienici sono stati rapidi ed efficienti, e pensare che non avevo neanche lasciato loro il mio indirizzo.

Dentro alla busta c’è l’abbonamento: un tesserino di plastica con il mio nome, la mia data di nascita e l’unica foto che è venuta bene. Hanno sbagliato a scrivere l’anno in cui sono nato, le ultime due cifre sono invertite, ora sono di trent’anni più vecchio. Mi guardo nello specchio del bagno. Rughe che ieri non c’erano,  molti meno capelli. Nel complesso sono invecchiato bene, anche se da quando mi sono chinato a prendere la busta la schiena mi dà qualche dolore.

Di questi giorni attraverso l’atrio di rado, fare tutte quelle scale mi affatica le gambe.

La ragazza la vedo comunque, alla fine ho scoperto che abita qui, proprio nel piano sotto al mio. Bussa alla mia porta per chiedermi dello zucchero, lo fa almeno una volta al giorno. Mi porta lasagne mezze crude, polpettoni bruciati, dice di non sapersi regolare con le porzioni. Per fortuna che non sento più molto bene i sapori, di questi tempi cucinare mi stanca. Le faccio spingere il cibo sotto la catenella tesa sulla porta appena accostata.

Lei sbircia dentro, si morde le labbra. Si propone di aiutarmi a riordinare l’appartamento, incrocia i piedi. Dice che è brava a pulire e fare il bucato, respira forte e si accarezza il collo.

Le dico che non se ne parla e chiudo la porta. Non mi fido degli sconosciuti.

Un racconto di Andrea Sola

Illustrazione di Chiara Zucchelli

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