Da domani tu sarai

Quando era da poco rientrato in casa e ancora si spogliava della tuta da lavoro, Fiodor Jaggre sentì bussare alla porta e non ebbe alcun dubbio.

Aveva a quel tempo cambiato già quattro esistenze, ma erano ormai passati sette anni dall’ultima volta che quelli del N.A.E. si erano fatti vivi con lui. 

Aprì ed era un agente del Nucleo Assegnazione Esistenze, gli comunicò che dal giorno successivo sarebbe stato un disonesto e che aveva dodici ore per lasciare l’abitazione in cui si trovava e la sua vita da onesto.

Gli porse una busta contenente la nuova assegnazione, l’indirizzo del nuovo alloggio, le chiavi e le istruzioni minime per il nuovo inizio. Si voltò e andò via.

Fiodor lo vide allontanarsi lungo il corridoio male illuminato su cui davano le porte chiuse ma udenti e vedenti degli altri appartamenti.

Il mattino seguente Fiodor si vestì e non raccolse nulla, neppure il più piccolo e occultabile degli oggetti: era la regola, niente passava da una esistenza all’altra.

Non diede neanche un ultimo sguardo alla casa in cui pure aveva vissuto, da uomo onesto, lavoratore e frugale, per sette anni.

Solo quando era sull’uscio e stava per chiudersi la porta alle spalle ebbe un’esitazione, e realizzò che stava uscendo senza chiavi.

Allora volse lo sguardo all’indietro e le vide appese al gancio sulla parete appena oltre l’ingresso, lì dove le posava ogni sera, lì dove le prendeva ogni mattina.

Soffocò l’impulso di recuperarle, tirò la porta fino in fondo, imboccò le scale e scese.

Fuori, l’ultimo buio prima dell’alba qua e là illuminato dalla fioca luce arancione dei lampioni sovrastava i blocchi di edifici e riempiva gli interstizi tra essi.

Fiodor si incamminò lungo uno dei viali verso la fermata dell’autobus, davanti a sé alcune figure silenziose lo precedevano, altre apparivano e si immettevano nello stesso flusso sbucando dagli accessi laterali dei vari blocchi.

Si mise in fila presso il piccolo chiosco in metallo: rivendita giornali, piccoli generi di conforto, biglietti. Biglietti.

Ma quando fu il suo turno restò muto per alcuni istanti, quelli sufficienti a percepire una presenza all’estremità del suo campo visivo sinistro, una sorta di ombra che lo osservava da dietro il tronco di un castagno; gli stessi istanti in cui nella sua coscienza si fissò con chiarezza la sua nuova condizione di disonesto: i disonesti non fanno il biglietto.

E quell’ombra non era visione: lo seguiva come da protocollo, qualcuno o qualcuna lì per lui, per vedere, valutare, annotare se il soggetto aveva iniziato ad aderire senza rigetto alla nuova esistenza. Per poi riferire.

La sua lingua era pronta a dire biglietto, non aveva mai viaggiato una sola volta senza; e invece la ricacciò giù in gola e chiese solo un pacchetto di caramelle Saturn.

Pagò e andò a infiltrarsi nella folla in attesa, e quando il 10 barrato arrivò si mosse tra la gente, cambiò porta all’ultimo per sgusciare dentro senza essere scorto dal conducente, così come aveva visto fare tante volte a quelli senza biglietto.

Per tutto il tragitto una tensione dolorosa lo attraversò, temeva la salita di un controllore e l’essere additato davanti agli altri come disonesto, tenne gli occhi bassi fino a che non fu sceso dall’autobus, ma abbastanza attenti per notare che l’ombra era ancora lì con lui.

L’abitazione era in una zona periferica della città e le massicce sbarre di ferro a difesa delle finestre, le conferivano un aspetto tetro.

Dal plico che gli era stato consegnato la sera prima tirò fuori le chiavi, le inserì nella serratura della pesante porta blindata e fu dentro.

Mobili, elettrodomestici e oggetti da arredo riempivano senza alcun nesso estetico tra loro le stanze, sembravano messi lì a caso in epoche diverse, eppure si percepiva un qualcosa in comune a tutti, un qualcosa che Fiodor in un primo momento non capì ma poi gli apparve lampante: era refurtiva, merce proveniente da reati.

In cucina, un frigo stile anni ‘50 conviveva con tavolo e sedie da esterno; nel bagno, rubinetti d’oro erano installati su ceramiche vecchie e sbeccate; in camera da letto, un baldacchino stava di fianco ad armadi di design industrial.

Fiodor tornò nel soggiorno e osservò l’ambiente più di una volta, sentì se stesso come un astronauta atterrato su un pianeta alieno.

Era stanco e si sarebbe volentieri disteso sul divano, ma spinto da un moto di repulsione non volle entrare in contatto con la fredda pelle bianca delle lussuose sedute, e così si mise a terra su un tappeto e si addormentò.

Si risvegliò a mattino inoltrato, la gola arsa e una fame cattiva.

Andò in cucina e aprì il frigo, ma era vuoto.

Spalancò le ante della dispensa e aprì tutti i cassetti ma non trovò nulla, solo una busta gialla da lettera. Dentro, un unico foglio con su scritto IL CIBO LO DEVI RUBARE.

Nell’ipermercato Fiodor si aggirò a lungo tra le corsie, nella sua testa si ripeteva rubare rubare, rubare, e più la ripeteva più quella parola suonava artificiale, esperanta, impossibile da tradursi in azione.

Finse di cercare qualcosa ma in realtà osservò il posizionamento delle telecamere, pensò che alla fine avrebbe potuto accettare anche di rubare ma mai di essere ripreso e registrato come ladro.

Pensò poi che se avesse rubato un po’ di pane e di formaggio e fosse stato scoperto, avrebbe sempre potuto giustificarsi dicendo che lo faceva per fame, a volte chi ruba per fame viene perdonato.

Ma quando con del pane già in mano si avvicinò al banco frigo dove erano confezionati pezzi di formaggio di varia grandezza, la sentì di nuovo vicina. L’ombra era lì, lo stava guardando, forse era la donna elegante col carrello di fronte a lui, o forse la coppia alla sua sinistra intenta a prendere della frutta, o forse il banconista delle carni alla sua destra, non seppe decidere.

Sapeva però che quello che stava rubando non gli avrebbe fruttato una buona valutazione, era un furto da povero non da disonesto e a chi non si adattava o faceva il furbo era riservata la Cura.

Non prese il formaggio e lasciò anche il pane; e in quel momento si arrese, capì che non poteva fuggire alla sua nuova esistenza.

Come pervaso da una conoscenza antica e in lui risvegliatasi d’incanto, si diresse senza più alcun impaccio in diversi reparti, trafugò un barattolo di caviale, un salamino pregiato e una piccola bottiglia di un ottimo whisky e con destrezza si infilò nell’uscita senza acquisti e poi fuori dall’ipermercato e si allontanò rapido in stradine laterali.

Lungo il tragitto verso casa si imbatté in una anziana donna che arrancava in salita portando buste della spesa, la avvicinò e la aiutò, le porse il braccio, e quando ebbero scollinato e poco più avanti sulla destra si aprì il cortile abbandonato di un vecchio edificio in rovina, Fiodor la spinse dentro con forza, poi la colpì in viso mandandola a terra, si avvicinò e con gli occhi iniettati di sangue e i denti digrignati la minacciò di stare zitta.

Le prese le due buste della spesa e la lasciò a terra mezza tramortita, se ne andò: aveva così recuperato anche il pane e qualcosa d’altro da mangiare.

Quando arrivò a casa trovò un piccolo pacco fuori la porta, una spedizione a suo nome.

Una volta dentro lo lasciò sul tavolo della cucina, andò nel soggiorno e lì mangiò ingordo ciò che aveva rubato in negozio e sottratto con violenza alla anziana donna.

E si scolò tutta la bottiglietta di whisky, fino a stordirsi e a cadere addormentato sul lussuoso divano in pelle bianca.

Si svegliò che dalle finestre sbarrate filtrava la luce morbida del tramonto.

Nauseato dal troppo alcol andò in cucina con passi incerti, bevve acqua dal rubinetto a grandi sorsate in parte versandosela addosso, poi aprì con furia il pacco: una pistola, un passamontagna nero, un foglio piccolo con su un indirizzo e un foglio più grande che diceva VAI E RAPINALI DI TUTTO.

Andò a farsi una doccia fredda per scrollarsi di dosso il torpore prodotto dal whisky, si vestì con gli abiti in dotazione nel nuovo alloggio, infilò la pistola nei pantaloni e la occultò sotto la maglietta, nascose il passamontagna in una tasca e uscì.

Mentre la attraversava, vide la città con occhi nuovi: ovunque posasse lo sguardo, essa mostrava doni e ricchezze e meraviglie, come un Eden inesauribile. Per goderne, chiedeva solo l’uso della volontà e della violenza.

Si sentì attraversato da una energia vitale mai provata prima.

A sera ormai giunta arrivò a destinazione.

Restò a osservare un po’ da lontano le luci della casa  mentre l’ombra osservava lui, la aveva sentita alle sue spalle per tutto il tragitto e ora era lì, poco distante da lui, ne era certo.

Quando il poco traffico nella via scemò del tutto, Fiodor si infilò il passamontagna si mosse attraversò la strada rapido salì i cinque gradini e fu davanti alla porta pronto a bussare tirare fuori la pistola spianarla in faccia a chi avesse aperto spingerlo dentro richiudere la porta intimare di stare tutti zitti e nessuno si sarebbe fatto del male.

Poi nella finestra adiacente alla porta per un breve istante apparvero le figure di due bimbi che si rincorrevano e Fiodor ne venne attratto e benché sapesse che non doveva guardare si sporse e diede un’occhiata e li vide, e poi vide lei: i suoi due figli e sua moglie di una vita precedente, amati e da loro amato, poi qualcuno alla porta, un agente del N.A.E., da domani sarai un fedifrago gli disse. E così li perse.

Restò a guardarli per pochi istanti, poi decise.

Tornò indietro, scese veloce le scale e con uno scatto andò sul retro della casa, ma sul retro non c’era già più quando l’ombra uscì allo scoperto e lo raggiunse, l’ombra si guardò intorno ma non lo vide e poi però sentì sulla nuca il freddo ferro della canna.

Fiodor le intimò di girarsi, le puntò la pistola in mezzo alla fronte, ma vide che il dispositivo dell’s.os. fissato sul bavero della giacca era stato già premuto, presto sarebbero arrivati i rinforzi.

Pensò che se le avesse sparato avrebbero vinto loro, perché l’avevano trasformato in un assassino.

Pensò che se avesse sparato a sé stesso avrebbero vinto loro, perché l’avevano trasformato in un uomo che rinunciava per sempre alla possibilità un giorno di riabbracciare i suoi figli.

Fiodor allora alzò la pistola e sparò un colpo verso il cielo, contro il Dio che non c’era e lo lasciava sempre solo; sparò un secondo colpo a lato dell’ombra, contro lo Stato che c’era e non lo lasciava mai solo.

Poi si sedette sul prato e disse all’ombra “aspettiamo qui, aspettiamo che arrivino, sono stanco”.

Un racconto di Massimo Iovinella

Illustrazione di Francesca Galli

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