Vittoria

“Salve, parlo con la signora Paola De Benedetti?”

“Chi la desidera?”

“La chiamo dal servizio di sorveglianza del supermercato del Centro Commerciale “Le Onde” di Verbano Mondello. Siamo qui con… con Vittoria. Potrebbe raggiungerci appena le è possibile?”.

Paola non ci mette neppure cinque secondi a mettere insieme quelle poche informazioni.

“Ha rubato qualcosa?”

“Preferiamo spiegarle di persona, la aspettiamo. Le invio la posizione del centro commerciale.”

“Ci so arrivare. Parto subito.”

E invece rimane ancora qualche minuto seduta alla sua scrivania, appoggiando il busto e il mento alla superficie liscia del tavolo. Da lì osserva lo studio con lentezza e circospezione: il divano è al suo posto, con i cuscini chiari ben allineati sui braccioli; anche le due poltrone, una di fronte all’altra, sono nella stessa posizione di poco prima. I quadri non si sono spostati, i volumi della imponente libreria a muro sono ancora bene impilati, la finestra continua a illuminare la stanza. È un esercizio che fa spesso quando ha bisogno di calmarsi: controlla che le cose intorno a lei continuino ad occupare lo stesso spazio di sempre, che l’ordine non sia stato sovvertito.

Un giorno una paziente le aveva raccontato che da quando il marito, di punto in bianco, aveva deciso di andare via con un’altra donna, aveva notato che i mobili della loro casa avevano cominciato a muoversi, gli oggetti a precipitare a terra, le coperte e le tende a sollevarsi e le luci ad accendersi e spegnersi senza che nessuno le toccasse. Paola aveva intravisto l’intensità della tragedia emotiva vissuta da quella donna non tanto osservandola piangere o raccogliendo la confessione delle sue paure e dei suoi rimpianti, quanto ascoltando il racconto di quel tornado invisibile che aveva messo sottosopra tutto il suo mondo. Il suo studio, invece, sembra non aver ricevuto nessuna scossa, dopo la chiamata di qualche minuto prima.

Tanto lei lo sapeva. Sapeva che Vittoria li avrebbe messi in un gran casino prima o poi. Eppure non ha fatto comunque in tempo a prepararsi: la vena del collo pulsa ad un ritmo continuo e l’occhio destro comincia a ballare, obbligandola a tapparlo con una mano. Si deve organizzare, questo almeno le riesce bene: solleva il telefono e comunica alla sua segretaria di annullare le due visite che le rimanevano per quel giorno. Le chiede di annullare anche la lezione di yoga delle otto. Rimane qualche secondo con il ricevitore in mano, schiaccia il tasto “4” che automaticamente compone il numero dell’ufficio di Cristiano. Non aspetta neppure che il telefono faccia il primo squillo e riattacca.

Esce in strada, accende una sigaretta e si infila nella sua auto. Apre entrambi i finestrini: ha bisogno che quel vento la colpisca da entrambi i lati, la prenda a schiaffi, le entri nelle orecchie e negli occhi e ripulisca quei pensieri scomodi che stanno cominciando a prendere forma.

Ci vorranno circa venti minuti per arrivare al centro commerciale. Vittoria ce ne avrà messi almeno trentacinque o quaranta in motorino, ma è stata una scelta intelligente: un centro commerciale periferico dove nessuno la conosce e dove potrà non tornare mai più.

Oggi avrebbe dovuto fare lezione di basket al pomeriggio, ma Paola già se lo immaginava che non stesse andando agli allenamenti. Vittoria è la ragazza con meno attitudine allo sport che abbia mai conosciuto, in questo almeno ha preso da lei. Cristiano, invece, riesce ad emergere in ogni disciplina e, oltretutto, senza fare alcuno sforzo.

Preme il tasto “4” del navigatore satellitare, quando sullo schermo appare “Cri lavoro” mette giù ancora una volta. Non vuole sentirgli dire che non sta reagendo in maniera sana e matura a quello che è successo.

Se si sforza, ce la fa benissimo anche da sola ad analizzare con razionalità la notizia che le è appena arrivata: sua figlia Vittoria, sedici anni, ha rubato in un supermercato; di sicuro si tratta di qualcosa di futile, di poco costoso, qualcosa che avrebbe tranquillamente potuto acquistare con la sua paghetta settimanale. Ma lei, adolescente ribelle e scontenta, decide di rubare per sfidare un sistema che le sta stretto almeno quanto le Asics bucate e maleodoranti che si rifiuta di buttare da circa due anni. “Ma le indossi tu le scarpe o lei? Occupati delle tue scarpe e non stressarla”. Cristiano, circa un mese prima.

Quando lavorava su quel progetto di sensibilizzazione e integrazione delle fasce a rischio nelle scuole professionali del distretto, aveva letto che circa il 78% degli adolescenti prova, almeno una volta nella vita, a rubare qualcosa. Le era sembrato un numero elevatissimo, forse perché nessuna delle sue amiche o colleghe le aveva mai confidato di avere un figlio ladro. Ma si sa, la gente nasconde, sotterra, rimuove. Però non le avrebbe fatto schifo che sua figlia appartenesse a quell’altro 22%, a quella piccola percentuale che passa per le casse a pagare e non obbliga i genitori a correre in un supermercato fuori mano un venerdì alle sei di sera. È così sbagliato pensarla in questo modo? È così borghese? Ecco, un’altra accusa che le rivolge ultimamente Cristiano: sei borghese. Lei è borghese se ordina sushi per fargli una sorpresa, è borghese se fa un abbonamento ad una rivista per Vittoria, è borghese anche se si propone come rappresentante di classe. Una volta gli ha chiesto quale fosse il contrario di “borghese”, ma lui non ha saputo darle una vera risposta. Forse non essere borghese vuol dire semplicemente essere come lui.

Di certo Camilla, compagna di classe di Vittoria, farà parte del 22% che si mette in coda e paga. Sa che è ingiusto e patetico fare quel genere di paragoni, ma non può evitarlo. Camilla è stata bocciata l’anno prima, anche lei ha avuto i suoi momenti di crisi, non è mica la figlia perfetta. Però è evidente che cerchi di non fare preoccupare sua madre, la protegge in qualche modo. La voce di Cristina, mamma fortunata, che cerca di consolarla le fa automaticamente scuotere la testa, come se dovesse scacciare via una zanzara che le si è appoggiata sul collo.

Come dice quel proverbio? “Il calzolaio va in giro con le scarpe rotte” e lei, psicologa e figlia di due psichiatri, ha una figlia che ruba nei supermercati. Le viene da ridere e da piangere assieme.

Forse sarebbe stato meglio che ci andasse Cristiano al supermercato a parlare con la vigilanza, a reggere lo sguardo del direttore e a affrontare la questione con Vittoria che, di certo, neanche in quella circostanza, sarà capace di abbassare la guardia, di riconoscere l’errore e tacere. “E allora?”, le sembra già di sentire sua figlia rivolgerle quella domanda con fare sprezzante e ironico.

Cristiano una volta le aveva addirittura rifilato un calcio nel sedere come reazione al suo ennesimo “E allora?”; Vittoria gli aveva dato dello stronzo, si erano rincorsi un po’ per casa, scambiandosi delle specie di insulti, e poi la sera li aveva visti flirtare sul divano, come se nulla fosse successo, prendendosi a cuscinate in faccia e ingozzandosi di patatine.

A lei il calcio in culo non l’avrebbe mai perdonato e la volta in cui, per smorzare un momento di tensione, le aveva lanciato un cuscino, Vittoria le aveva piazzato in faccia uno sguardo disgustato e aveva detto “Ma sei scema?”.

Si chiede cosa farà nel momento in cui si troverà di fronte sua figlia. Forse dovrebbe abbracciarla e dirle che non è poi così grave come sicuramente avranno cercato di farle credere prima del suo arrivo. O forse dovrebbe assestarle un bello schiaffo in faccia e intimarle di salire in auto senza dire una sola parola. Cosa farebbe una buona madre in quella situazione?

“Paola, scegli se vuoi essere la madre o la psicologa di tua figlia”, un altro dei leitmotiv di Cristiano.

In realtà era stata lei a proporre a Vittoria di fare qualche seduta con una psicologa, una ragazza giovane e in gamba che l’aveva saputa mettere a suo agio. Vittoria ci andava volentieri da lei, si capiva che le faceva bene avere quello spazio per sé. “Un giorno magari vieni anche tu e parliamo tutte e tre assieme” le aveva detto solo qualche giorno prima. “Certo. Vuoi che lo dica anche al papà?” “No, con lui non ci sono problemi, lui mi capisce.” Paola non era stata in grado di replicare, aveva sentito lo stomaco ritirarsi e contrarsi per alcuni secondi e poi una sensazione di malessere diffondersi per tutto il corpo. Come quando aveva letto “Non ammessa” di fianco al suo nome, al primo test della scuola specialistica. Ma ora quella sensazione era molto più potente, si sentiva bocciata da sua figlia senza possibilità di recupero o riammissione.

Il parcheggio del centro commerciale “Le onde” si apre davanti ai suoi occhi facendola sbuffare di ansia e fastidio, pensava di metterci qualche minuto in più ad arrivare e invece è già lì. Strano nome “Le onde” per un complesso che sorge ad almeno duecento chilometri dalle prime spiagge e che, del mare, le ricorda soltanto la sensazione di nausea che si prova su un pedalò durante una tempesta.

Trova parcheggio proprio davanti all’ingresso, entra, la potenza dell’aria condizionata la fa tremare di freddo. Si avvicina alla reception, prima che possa cominciare a spiegare chi sia e cosa ci faccia lì, le si affiancano un agente della sorveglianza e un tipo molto elegante che probabilmente sarà il direttore.

“La accompagniamo” dice la guardia con tono serio.

Attraversano un corridoio che sembra infinito, il supermercato trabocca di gente e carrelli: il colmo sarebbe incontrare qualcuno dei suoi pazienti mentre viene scortata da quei due uomini. Alla fine del corridoio c’è una porta semiaperta e davanti alla porta un paio di persone la stanno aspettando.

Riconosce immediatamente sua madre, la sua collana di perle risplende anche con la lattiginosa luce al neon del supermercato. Ma come hanno potuto chiamare prima la nonna di lei? È incredula e rabbiosa. Accelera il passo.

“Mamma cosa ci fai qui?”

“Mi dispiace.”

“Dov’è Vittoria?”

Il direttore e l’agente la raggiungono.

“Ci dispiace di averla dovuta contattare, ma quando abbiamo fermato la signora Vittoria con i due barattoli di Nutella nascosti in borsetta, è entrata in confusione e non riuscivamo a comunicare con lei. Abbiamo pensato che non potevamo lasciarla andare via sola.” La commessa si affretta a tirare fuori da un sacchetto i due barattoli incriminati e li mostra a Paola. Sono gli stessi che lei e Cristiano usano ogni mattina per la colazione.

“Quindi mia figlia non c’entra niente?” chiede mentre con lo sguardo ancora la cerca tra le corsie del supermercato.

L’agente e il direttore si guardano perplessi. “Non sappiamo chi sia sua figlia” dice uno di loro. Lo sguardo di Paola si incastra tra le perle della collana di Vittoria.

“Mamma, ma perché hai rubato la Nutella?”.

Un racconto di Dominique Campete

Illustrazione di Lola D’Autilia

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