La bambina d’argento

Togliere l’uovo alla parmigiana.

L’uovo sodo.

Avevo imparato a farlo con discrezione, confidando nella buona educazione dei commensali: non si guarda nel piatto dell’altro e non si commentano gli avanzi.

“Ah, ma tu non mangi l’uovo sodo?”

C’è sempre un nuovo ospite che chiede, per rompere l’incanto dell’imbarazzo che si genera quando si litiga a tavola, in famiglia, in presenza di estranei.

“Solo il bianco non mi piace.”

La mia risposta è sempre la stessa, ma a nessuno sembra interessare che potrei ingoiare il tuorlo: l’uovo sodo è un dogma, o intero o niente.

A questo punto gli sguardi si spostano inevitabilmente su di te, la cuoca perfetta. E tu rispondi alla domanda muta: “Sempre così! E stavolta l’avevo proprio tritato: una fatica inutile!”

Tu hai fatto fatica a metterlo, io a toglierlo. Abbiamo entrambe sprecato tempo ed energie.

Eppure sarebbe bastato tagliare l’uovo in pezzi più grandi, in modo da scartarlo con facilità.

Invece tu ogni volta ti ostinavi a promettere che non lo avresti messo, quando sapevi bene che non sarebbe stato così: tu non volevi che il tuo cibo piacesse, ma che fosse perfetto secondo tradizione.

Come se avere gusti diversi potesse essere un errore di partenza che impedisse qualunque arrivo.

Hai sempre preso in giro la mamma degli amici che oggi ci ospitano per le sue teglie con gli steccati di stuzzicadenti a soddisfare le richieste di noi ragazzi.

A me allora sembrava tu avessi ragione e mi sentivo in colpa per la mia porzione di teglia, ben delimitata e priva d’uovo sodo. C’erano stuzzicadenti che indicavano la quota senza formaggio per Marco e una piccola teglia a parte con le melanzane non fritte, ma arrostite, per Marzia, sempre a dieta.

I piatti restavano tutti vuoti ed eravamo felici.

Io me le ricordo, le risate a quella tavola.

E tu che dicevi: “Se fossero figli miei, direi: io la faccio così, e se ne vuoi ne mangi altrimenti passi.”

E invece io, che ero figlia tua, mi ostinavo a prendere anche quella che preparavi tu e a scartare i pezzetti di albume sodo sempre più piccoli, avvelenandomi il gusto del cibo con la salmodia della tua delusione e infilando la forchetta con piacere negli strati di melanzane smembrati tra sugo e formaggio, come a trapassare il tuo costante sguardo di disappunto.

“Se vai da qualche parte che figura fai?” ripetevi, a me e Marco, ogni volta che non corrispondevamo ai tuoi desideri. Era il nostro viatico: essere un peso per il mondo solo perché pensavamo di essere liberi di scegliere cosa mangiare.

Marco meno di me: lui riusciva solo se mi aveva accanto. Quando era a tavola da solo ingoiava tutto a pezzi grandi, senza masticare, oppure rinunciava. Solo in mia presenza trovava il coraggio dello scarto, della scelta.

“Che belle cose che insegni a tuo fratello…”

Non era nemmeno una vera accusa, ma una condanna definitiva, come se io fossi stata genitore e non pari, pur avendo solo quattro anni più di lui.

Avrei voluto dirti che io non gli insegnavo alcuna cosa, se non ad essere se stesso, in libertà.

E tu avresti dovuto esserne felice.

Lui non era me. A lui l’uovo non dava fastidio, ma il formaggio cotto non gli piaceva. L’uovo era messo via perché catturato dal formaggio fuso e ormai rappreso.

Avevamo gusti diversi, ma lo stesso disperato bisogno di essere ascoltati.

Era abbracciato a Marzia, nel letto. È così che li hanno ritrovati. E io lo lascio lì che sorride e dorme con lei, ogni notte, quando tento di andare via nel sonno.

Mi consola che tu non sappia, che resti tutto scritto qui, nell’olio che frigge, stamattina, tra le fette di melanzana infarinate.

Non verranno buone come le tue, ci sono vicina da sempre, ma non abbastanza.

Avrei voluto dirti che noi la parmigiana la mangiavamo, nonostante la fatica dello scarto, perché le tue melanzane fritte erano le più buone del mondo.

Avresti capito? Saresti stata felice? Saresti riuscita a metter via la delusione dello scarto di uovo e formaggio per goderti il primato della melanzana fritta?

Marco avrebbe voluto dirlo in chiesa: mamma friggeva da Dio.

Lo sai che gli piaceva esorcizzare la morte, che aveva sviluppato quella sua capacità di eccellere in tutto per non essere ostaggio della paura: un traguardo dietro l’altro, sempre sul primo gradino del podio. Un figlio d’oro, dicevi, e io lo prendevo in giro, ricordi? Dicevo che aveva troppo oro addosso per un uomo, come il Bambinello in processione: il tuo bracciale di laurea, quello di Marzia per il compleanno, la catenina con le medagliette e il crocifisso dei nonni, il fermasoldi di papà.

Oggi preparo la parmigiana con la cura di un letto da sposa: uno strato dopo l’altro, melanzane, caciocavallo, salsa di pomodoro, uovo e pecorino. E così ti accarezzo, come quando ti porto un fiore o ti penso, nei cassetti ordinati e lisci della biancheria ricamata.

I nostri ospiti mi permettono di cucinare perché il mio terapeuta lo ha confermato anche a loro, unica concessione all’amicizia che li lega da molti anni rispetto al segreto del nostro dialogo professionale: ho bisogno di fare cose semplici e manuali, primordiali, per recuperare il contatto con la realtà ed elaborare piano piano il lutto.

Hanno voluto che io e Stefano abitassimo qui fino a che non si saprà se potremo rientrare a casa nostra.

Stefano ogni giorno si fa due ore e mezzo di viaggio per andare e venire dal lavoro, ma sembra che non gli pesi. Io sono in aspettativa, non so se rientrerò a breve.

Dovrò fare i conti anche là con molte assenze e non sarà facile.

Qui il terremoto non ha fatto danni, le crepe nel muro sono le stesse di quando venivamo a far visita da piccoli. Abbiamo una parte della villa tutta per noi: se volessi potrei non incontrarli mai, che amici straordinari! Ti piacerebbero, oggi che sono adulti: gentili e affettuosi, forse ancora più dei loro genitori, i vostri testimoni di nozze.

Loro sanno che è crollato tutto, che il mio mondo non esiste più. Anche un pezzo del loro è sparito per sempre. Non ne parliamo, è meglio.

Stefano invece non può capire fino in fondo: i suoi sono lontani, ma sani.

Ha scelto di restarmi accanto anche se la mia mente s’è fermata e il mio corpo non gli risponde più da tempo.

Non ho voglia né di leggere né di fare l’amore. Non voglio sentirmi spezzare, sono polvere.

Ho ripreso ad accarezzarlo come facevamo da ragazzi, quando credevo che bastasse non averlo dentro per rimanere pura secondo le regole. E oggi come allora sento il suo seme, crema calda nelle mie mani, e lo bacio piano mentre s’addormenta. È bello, ancora bello, l’argento tra i capelli e le prime rughe. E ha tanta pazienza con me, con quelle inquietudini che mi hanno portata lontano dal suo letto e dalle sue braccia, in un tempo che non ha passato.

Dopo pranzo arriverà Maria con i genitori, andremo insieme a vedere casa loro, i tecnici hanno dato il permesso di accedere e portare via qualcosa.

Maria è la mia figlioccia e mi somiglia. La sua mamma è la cognata dell’amica che ci ospita. È stata lei a chiedere di portare anche noi e gli zii. La tristezza ha bisogno di buona compagnia.

Maria adora la parmigiana e forse stasera resteranno a cena.

Adora anche suo fratello e mi assale una nostalgia tremenda, amara, quando le vedo gli occhi accesi mentre parla di lui, anche se in realtà non fanno molte cose insieme.

Qualche Natale fa, prima del brutto incidente che l’ha tenuta in ospedale per mesi, ho regalato loro un modellino del sistema solare, di quelli che si appendono e i pianeti ruotano grazie a un piccolo pannello fotovoltaico. Il fratello lo ha montato in mezz’ora, poi lo ha lasciato lì, senza interesse, e io e Maria abbiamo organizzato un paio di razzi di carta per portare le bambole a esplorare l’universo. Sarà in pezzi, certamente, ormai.

Maria va bene a scuola, anche a scherma. Prende il massimo dei voti, ma non è la prima della classe. Si distrae, insegue sogni, aiuta gli altri.

Il suo allenatore dice che se solo sfruttasse al meglio le sue possibilità… e io provo a spiegare ai genitori che Maria le sfrutta tutte, le sue possibilità: anche quelle di non vincere.

Il fratello è campione regionale di nuoto.

Parteciperà alle gare nazionali. Quando è stata operata c’era una selezione importante: voleva essere con lui, ma non poteva muoversi.

Allora abbiamo creato un podio con dei vecchi cubi di legno di un alfabetiere e al primo posto abbiamo messo una foto del fratello, al secondo una di Maria, al terzo quella della loro mascotte, Whisky, il gatto di famiglia.

Poi l’ha fatto vedere alla mamma e insieme hanno scritto sotto le postazioni: il bambino d’oro, la bambina d’argento, il gatto di bronzo. L’hanno nascosto nel borsone del fratello che, come sempre, ha vinto. E Maria ha pianto di gioia e la mamma pure.

Anche adesso piange, Maria, davanti la porta della sua villetta, stretta alla mamma, mentre l’ingegnere illustra i danni ai suoi genitori e Stefano e gli altri discutono dei lavori da eseguire. Poi si rifugia nelle mie braccia e così piango un po’ anch’io. Chiudiamo gli occhi: possiamo ricordare com’era prima, senza le barricate e le macerie ai lati della strada che abbiamo percorso in macchina.

Le barricate dove manca qualcosa: una casa, un ufficio, e qualcuno, magari un fratello felice, addormentato con la sua sposa.

È buio quando riprendiamo la strada per casa, eppure lo sguardo resta incollato ai finestrini, gli occhi gonfi e rossi e con un urlo muto, come quando si passa un dito nella ferita di un morto.

Noi amiche in cucina recuperiamo una bottiglia di vino e ce la finiamo in tre, prima di sederci con i ragazzi, che hanno apparecchiato e, per fortuna, almeno loro hanno fame.

Hanno anche messo già la parmigiana nei piatti: la mia è smembrata, senza uovo, trasferito d’ufficio nel piatto di Stefano. Lo guardo e sorrido. In fondo amare è anche questo: riconoscere il diritto allo scarto.

La mia bambina d’argento ha una richiesta: giocare con me, a dama, dopo cena.

Quando siamo pronte entra nella stanza il fratello con una scatola.

“L’avevano buttato via perché s’era rotto,” dice, mentre la apre. “Ho recuperato tutti i pezzi, credo, appena avete finito vi aspetto di là che nel frattempo lo rimonto e vediamo.” Il gioco del sistema solare dell’altro Natale!

“Cosa fate?” s’affaccia Stefano che vuole raggiungere gli altri in terrazzo con sigarette e whisky.

Maria sta vincendo, ma Stefano gira la scacchiera e inverte le parti.

“È così che funziona nella vita: mentre vinci qualcuno ti gira la scacchiera, piccola. E adesso cosa farai?”

“Provo a vincere anche così, magari arrivo seconda,” ride, la mia adorabile peste.

Non ha detto perdere: un giorno lontano le ho detto che perde davvero solo chi non si mette in gioco… “E sbrighiamoci a finire, che dobbiamo rimettere a posto l’universo.”

Stefano mi guarda e sorride.

“Ha ragione, da qualche parte bisognerà pure cominciare: mi sembra un buon inizio.”

Anche a me.

Guardo la scacchiera.

In fondo perde solo chi sta dal lato sbagliato.

Prima che tutto si capovolga.

Un racconto di Loredana Gaudio

Illustrazione di Incorrect

3 thoughts on “La bambina d’argento

  1. Una persona che s’imbatte con una scrittrice come Loredana Gaudio finisce inevitabilmente per innamorarsene. Tutto questo avviene non tanto e non solo per lo stile asciutto, per la prosa calma e spietata, ma soprattutto perché in poche pagine narra dolori, gioie, contraddizioni emozioni, insomma vita, che non è solo quella dei suoi personaggi – persone, ma la vita di tutti: è come aprire una matrioska, non si finisce mai di scoprire oltre quello che viene descritto con tanta abilità, molto di quanto viene taciuto.

Rispondi a Gina Falbo Annulla risposta