Vi conosco tutti

La mia vita comincia così: da qualche parte nel mondo, un ignaro pioppo inizia ad avvertire un prurito sul tronco. Quando il fastidio diventa dolore, allora significa che non si tratta delle solite iniziali intagliate storte da qualche stronzo con le chiavi di un motorino, ma è uno di quei Sapiens adulti, quelli con la motosega e la visiera di plastica. Segue il fruscio lento e solenne delle fronde che si abbattono, in un ultimo vaffanculo prima di spezzarsi agli occhi del bosco.

Il cadavere viene poi scorticato e tagliato a rondelle senza divisioni ulteriori, come fanno i pigri con le zucchine. Nel gergo si chiamano “chips”. Le chips vengono quindi sfibrate da una pala meccanica per poi subire una serie di processi chimici. Dissoluzione, epurazione, raffinamento. Ne esce una pasta che viene mescolata attraverso una cassa di flusso, che poi la spiattella sul tavolo di fabbricazione dove inizia il drenaggio. A quel punto basta qualche rimbalzo tra le presse umide e la seccatura, un altro bel trattamento chimico superficiale, un’assottigliata tra i rulli delle calandre, un’ultima essiccata e finalmente, dopo un erotico avvolgimento in bobina, voilà. Eccomi qui. Stirato, sbiancato e pronto ad affrontare una carriera di abusi.

Fin dalla nascita ti piegano, ti imballano, ti ritagliano. Modellano il tuo corpo a cazzi loro e per i loro scopi. E non è facile affermare se stessi o seguire i propri sogni, quando sai già che subirai un imprinting.

Il significato che avrà la tua esistenza rimane un mistero fino all’ultimo. Certo, uno può illudersi e sperare di passare alla storia come contenitore di memoria e conoscenze, sottolineato da futuri scienziati o protetto da un vetro dietro gli scaffali di una biblioteca. Ma quello è un lusso per pochi. La maggioranza di noi finisce a planare sul marciapiede per essere calpestato centinaia di volte prima che un singolo, stupido umano abbassi lo sguardo con indifferenza per leggere: “Pizza Loca Special, presenta il coupon alla cassa e avrai lo sconto del dieci percento con supplì in omaggio”.

Per me non è andata malissimo. Ho avuto gioie e dolori, mi ritengo un privilegiato. Non soltanto perché nessuno mi ha incollato in una rilegatura, o perché sono più lungo della media.

E nemmeno perché mi avete risparmiato colori equivoci, caratteri cubitali o intestazioni svilenti.

Il motivo è che ho potuto ammirarvi in uno dei momenti più goffi delle vostre frenetiche vite.

No, non sono uno strappo per pulire il culo, quelli hanno un impasto diverso, razzisti di merda. Non fate di tutto un’unica fibra.

Il mio ruolo è penzolare da un gancio all’ingresso di un posto dove prima o poi andrete a finire tutti.

Me ne sto lì, in attesa, tra le buste e i carrelli, e vi vedo entrare uno per uno. Siete col partner, con i vostri parenti, con amici. Quasi mai da soli, ma quasi tutti mi ignorate. Alcuni di voi mi superano in preda all’entusiasmo del consumatore. Altri invece varcano la soglia col naso all’insù, il labbro sceso e l’aria preoccupata di sa già che si perderà almeno sette volte. E mentre salite le scale mobili confabulando, o vi infilate nei corridoi con lo sguardo immerso nella lista delle cose che servono, dal mio gancio di alluminio zincato ho già capito di che pasta siete fatti. Appena vi ritrovate nel primo reparto e scoprite che c’è da fare un po’ di calcoli, vi precipitate indietro per cercarmi. E io me la tiro.

Sono inerme e gratis, quindi mi afferrate senza garbo né ritegno.

A volte mi prendete a fasci di due o tre, e quel “tanto non si paga” ve lo si legge in faccia.

Ma la cosa più bella è che siete convinti di usarmi per valutare la profondità di quella mensola, o la larghezza di quell’anta, ma avete capito male.

Sono io che prendo le misure a voi.

Capisco subito chi siete da come mi trattate. Dal modo in cui mi stendete o dalla nevrosi di quando mi arrotolate al pollice, come bimbi annoiati, mentre vostra moglie parla di cassettiere.

Ma non temete. Resto con voi. Quando pensate di aver segnato bene e poi capite che mi avete girato sul lato degli inches e non dei centimetri. Quando perdete la pazienza e scatta la polemica. E anche quando mi dimenticate accartocciato in tasca.

Rispunterò in tarda serata, scivolando dentro al piattino dove poggiate le chiavi e gli spicci.

Dopotutto, anche se fatto di cartaccia dozzinale, sono pur sempre quello che ha stabilito la larghezza del tavolino della vostra cucina, o le misure della testiera del letto in cui concepirete i vostri figli. Quindi perché buttarmi via come uno scontrino qualunque?

Valorizzatemi. Datemi una chance, e poi chissà.

Una volta sbottonato un pantalone può succedere di tutto.

Tu, caro, potresti toglierti quel dubbio che hai sempre sopito per paura di restarci male.

E tu, cara, potresti stupirti di quanto è bastardo il concetto di girovita.

La mia storia finisce anche così: un attimo sono steso lungo uno scaffale e faccio il mio per le geometrie del mondo, e all’improvviso mi ritrovo a sprofondare in un rotolo di grasso addominale. Mi stiro per avvolgere un polso. Mi strappo per segnare un uccello.

I filosofi si azzuffano su quale possa essere, oggi, il metro della civiltà umana.

Adorabili. Davvero. Uno è ancora al reparto lampade.

Un racconto di Paolo Federico

Illustrazione di Alessia Arti

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