Parole come crocifissi

Stavo provando a ricordare qualcosa che una volta sapevo e che avevo dimenticato quando una folata di vento mi strappò di mano il biglietto della metro. Sfarfallò in aria e io provai ad acchiapparlo al volo, ma lui fece due giri della morte e cappottò a terra. Strascicò al suolo per un paio di metri e io gli corsi dietro, con la schiena gobba e le braccine da tirannosauro. Una ragazza bruna con una gonna a righe verdi e gialle si chinò a raccoglierlo e sorrise di gusto. Dissi grazie e lei annuì.

Arrivò il treno, salii.

PROSSIMA FERMATA/NEXT STOP: MISSORI

Un uomo con i ricci afro e una bici da montagna caricata in spalla mi travolse e io crollai addosso alla ragazza con la gonna a righe. Le chiesi scusa e le domandai se le avevo fatto male.

Lei scosse la testa, tirò fuori un cartoncino dalla tasca della gonna e me lo porse. Diceva:

A causa di una grave forma di disfasia congenita non parlo volentieri. Però ascolto.

Sorrise di nuovo e anche io. Le toccai un braccio per indicarle un paio di sedili e ci mettemmo a sedere. Continuammo a palleggiarci sorrisi, come in un ping-pong. Pensai a qualcosa da raccontarle. Le dissi che mi chiamavo Ida e che avevo una figlia. Le dissi di quella volta che mia figlia mi aveva chiesto cosa succede agli uomini che ricevono l’estrema unzione e poi non muoiono. Aveva paura che il prete si potesse offendere, per aver fatto un giro a vuoto. Quella volta stava morendo mio padre, ma questo lo omisi alla ragazza con la gonna a colori. Volevo essere divertente. Le dissi che quando mia figlia era più piccola la mia paura più grande era che diventasse una delinquente, di quelle che vanno a rubare televisioni, o che rimanesse incinta di uno zingaro. Ma poi lei si era fissata con la religione e allora diventare nonna mi era sembrato il minore dei mali.

La ragazza con la gonna a righe ficcò la mano nella borsa, tirò fuori il telefono e iniziò a muovere le dita sullo schermo, velocissime.

Plick, plick, plick, plick.

Mi girò lo schermo.

Dimmi di tua figlia

Le dissi che mia figlia aveva iniziato a collezionare santini e crocifissi a cinque anni. E che le maestre mi avevano tranquillizzato, dicendomi che è normale per i bambini come lei avere delle fissazioni. A dieci anni già metteva le parole in croce.

Disegnai le parole in aria con un dito e lo smalto rosso lasciò una scia.

       Dio

 Onnipotente

       qui

       per

       noi

La ragazza con la gonna a righe rimase a guardare la scia qualche istante poi abbassò gli occhi carichi di mascara su di me. Le dissi che col tempo mia figlia aveva preso a mettere tutte le frasi in croce. Usava solo parole che potessero inchiodarsi come assi e più diventava abile negli incastri, meno usava la voce. Mi passava i biglietti e poi mi guardava ma era come se guardasse oltre me, verso un punto alle mie spalle. Le dissi che mio marito era l’unico che aveva imparato a risponderle a quel modo. Trovavo bigliettini ovunque. In cucina, in camera di mia figlia, in bagno, negli armadi, fra i vestiti. Erano post-it gialli, al profumo di limone. Glieli aveva regalati lui. Li trovavo macchiati di caffè, sugo, dentifricio, olio. Io non ero capace a scriverli.

La ragazza con la gonna colorata alzò lo sguardo e io temetti che fosse arrivata la sua fermata. Riprese a picchiettare lo schermo.

Li scrive ancora?

Le dissi di sì. Che ora era il nostro letto a esserne pieno. Spuntavano fuori fra tutti quei tubicini trasparenti, fra i bugiardini spiegazzati, fra gli involucri bianchi a strisce azzurre. L’ultimo che avevo letto l’avevo trovato sotto al braccio di mio marito. Diceva:

 non

  andartene

 stai

 con

 noi

La ragazza mi guardava senza sbattere le palpebre, e io potevo vedere i suoi pensieri. Mia figlia non mi guardava mai così. Quel pomeriggio me n’ero andata e l’avevo lasciata lì con mio marito, a scambiarsi biglietti. Lui ormai aveva smesso di portare la mascherina e il dottore aveva concluso che sarebbe stata questione di ore. Così io era uscita. Avevo preso l’auto e guidato fino alla fermata di San Donato, accelerando, come se qualcuno potesse fermarmi, e avevo preso la metro fino al Duomo.

Mi ero sentita colpevole, orribile. Ma anche piena di vita.

Mentre parlavo una voce femminile si diffuse dai microfoni.

FERMATA ROGOREDO. APERTURA PORTE

La ragazza con la gonna circense digitò ancora.

Presto, dimmi un’ultima cosa

Le dissi che quel pomeriggio, camminando sotto i portici, avevo fumato Lucky Strike come facevo al liceo. Che avevo preso un caffè seduta al tavolo, guardando la gente passare.

Le dissi che il mio nome non era Ida.

La ragazza mi mise la mano sul ginocchio. Io mi ficcai la mano nella tasca destra del cappotto e frugai per cercare il suo cartoncino di presentazione; afferrai qualcosa, glielo appoggiai sulla gonna e uscii dal convoglio – senza aspettare, senza guardarla

Salii in auto e mi immersi nel traffico lento della sera, veleggiando davanti ai negozi illuminati. Parcheggiai l’auto sotto casa. Guardai il balcone di camera nostra; gli scuri non erano stati chiusi e una lucina fioca brillava all’interno. Misi le mani in tasca, accarezzai con le dita il bordo di un biglietto. Ne cercai la striscia nera e liscia sul retro ma non la trovai. Lo tirai fuori e vidi che non era il ticket della metro ma un cartoncino ocra con una scritta nera stampata sopra.

A causa di una grave forma di disfasia congenita non parlo volentieri. Però ascolto.

Ricordo che in quel momento il mio cuore iniziò a correre. Rividi la ragazza con la gonna a colori da sola, in metro. La vidi circondata da persone che si avvicinavano e le chiedevano informazioni; lei si frugava in tasca per cercare il biglietto, ma non trovava nulla. Iniziava ad agitarsi, provava a parlare, ma dalla sua bocca usciva solo fiato muto. Cercava di urlare e le vene del suo collo si gonfiavano. Pensai che dovevo tornare là sotto, per cercarla – trovare il modo di restituirle il biglietto. Svuotai la borsa sul sedile, ripresi in mano le chiavi e le forzai nel quadro. Decisi che l’avrei ritrovata perché altrimenti sarebbe stata persa. Sì, lo avrei fatto. Forse non ero in grado di aiutare mia figlia ma di certo avrei provato ad aiutare lei.

Accesi il motore e ingranai la seconda; l’auto strappò e si spense. Appoggiai la fronte sul volante e piansi – non so per quanto tempo rimasi lì a piangere. Guardai la luce fioca e calda che proveniva da camera nostra e provai paura all’idea di rientrare, paura di ciò che avrei trovato. Ero convinta che quella sarebbe stata la fine di tutto. Scesi dall’auto, con il biglietto fra le dita. Ancora non sapevo che di lì a breve, dopo anni, avrei riascoltato la voce di mia figlia.

Un racconto di Lisa Malagoli

Illustrazione di Rebecca Fritsche

One thought on “Parole come crocifissi

  1. applauso.
    il finale mi lascia perplesso ma i giapponesi (kawabata?) sostengono che il finale non è importante, come la meta rispetto al viaggio. E qui è un viaggio intenso, concreto nei dettagli, metafisico nelle impressioni (sento una sovrapposizione tra la ragazza afasica e la figlia dalle parole in croce, e un legame particolare, istintivo e totale, tra padre e figlia che esclude la madre), strabiliante nella scrittura (l’incipit, con quel biglietto che sfarfalla, mi ha inchiodato).
    ml

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