Foglie Morte

È giunta l’ora che segna la fine dell’attesa, quando il sole disegna ombre lunghe sulla strada di terra molle e Mario pulisce le botti di rovere che sanguinano di mosto. Scorze di chicchi d’uva diventano carcasse che sembrano insetti stecchiti e l’odore acre di muschio sale e pizzica le narici.

Lei arriva che quasi la sente comparire da lontano, come se fosse un presentimento, vederla stringe il petto e smorza il respiro. Ha una nuvola di spine per capelli, occhi colorati di foglie morte, la fronte alta, lo sguardo fiero di chi ha vinto ogni battaglia e un sorriso abbozzato di mistero. Galleggia come un palloncino pieno d’aria e segue il vento.

L’acqua manca, come quasi tutti i giorni di questa estate torrida che volge al termine. A Tano puzzano le ascelle, una gora di sudore riga le tempie, le labbra sono secche e vorrebbe bere ma non è questo il tempo.

Brucia come paglia ogni volta che la vede, folle di desiderio il respiro arranca che sembra un vecchio diesel su una strada di montagna.

Lei passa sotto al balcone, lenta che non ha niente di importante da fare, ha una borsa stretta fra le dita di smalto sbeccato, le cuffiette nelle orecchie, nessuno che l’aspetta in fondo alla strada storta che porta al campo di ciliegi.

Tano vorrebbe correrle dietro, arrivare a sfiorarle il braccio, perdersi nel suo sguardo, scoprire quali mondi e pensieri ci annegano dentro, sentire il suono della sua voce, chiederle il nome.

Sua madre blatera nell’altra stanza di parole sconnesse lanciate come frecce contro specchi che non si rompono mai. Chissà quali mostri popolano la sua testa, chissà a chi regala quelle parole smorzate di denti stretti. Forse a suo padre che se n’è andato troppo presto, ché la vita per lui era un mestiere infame da portare a termine, e per questo ha deciso di finirla in una sera come questa, dove la notte era ricca di stelle, le lucciole erano fuochi fatui, righe sghembe su uno schermo in technicolor spento.

Tano se lo ricorda ancora quel momento, l’auto in moto, il cambio in folle, il dirupo davanti ai suoi occhi pieni di lacrime di paura, suo padre dalla faccia ammaccata di mille smorfie.

“Tu vieni con me ché sei roba mia, e mio rimani.”

Legato al sedile con una cinghia, le mani di babbo che spingono, la portiera ancora aperta, Tano ricorda il fischio del vento che era fresco e sapeva di erba.

Poi rami che si spezzano, le ruote che fanno rumore come quelle di un treno, la testa che batte forte, poi dolore, il lamento del ferro che si piega e taglia la pelle. Un sibilo sinistro, il sangue scorre copioso, scuro, denso, caldo, il babbo pare che sia morto, morirà in ospedale fra le urla disumane di sua madre, mani in faccia, capelli sfatti, vesti stracciate come la foto piena di santi.

Intanto lei sfila che quasi sparisce dietro gli alberi, è solo un punto lontano che si mischia con la chiazza rossa del tramonto.

Tano se la immagina vagare nella casa vuota di ricordi, nuda di seni generosi e tondi, bianchi come il latte, di capezzoli irti e duri mentre si guarda allo specchio e una mano ci passa sopra e fa una smorfia che pare buffa e bella da morirci dentro, farebbe di tutto per averla.

Intanto scende umida la sera, un cane ringhia e si batte contro un nemico invisibile, un piccolo topo forse, un altro fantasma di questo borgo dimenticato che se cerchi Dio devi solo inventarlo.

La mamma soffoca in un rantolo, le medicine sono sul tavolo ma Tano pensa ad altro. La donna lo chiama per nome, si alza dal letto, la sente rompere un piatto, respirare a stento ma per Tano non ha importanza.

Pensa che vorrebbe alzarsi da questa sedia di ruote e metallo, reggersi su gambe rinsecchite e fuggire lontano dalla casa degli spettri, così l’ha battezzato quel posto, dai problemi di sua madre che vive prigioniera della sua mente, da quello di suo padre riflesso in un fondo di caffè.

Si affaccia alla finestra, è una bella notte per sognare lei che di nuovo appare su di un raggio di luna. Lo sta osservando curiosa ed è la prima volta che incrociano gli sguardi, i suoi occhi sono schegge di acqua fredda e si muove il mare dentro. Tano ci crede veramente, prova ad alzarsi che stringe i denti e ce la fa pure, è un piccolo miracolo di braccia possenti. Finalmente corre da lei, arriva persino a sfiorarla, affonda in quell’abbraccio che profuma di frutta e terra calda di sole e umida di sangue che sgorga e resta in una pozzanghera. Ci fa l’amore, la prima e l’ultima volta e non gli pare vero. Sorride, beffardo e felice. Così lo troveranno, libero da ogni zavorra e nessuno saprà mai come abbia fatto a buttarsi di sotto, dove abbia trovato la forza necessaria e pure il coraggio di volare da lei che neanche conosce il suo nome.

Un racconto di Vincenzo Carriero

Illustrazione di Giulia Canetto

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