Rumore bianco

‒Sicura vada tutto bene?

Fa sì con la testa.

‒Volevo solo abbracciarti un po’, che c’è di strano. Non vieni mai a trovarmi.

Siedo accanto a lei e la osservo bene. Quando vedo le persone a lunghi intervalli noto il loro invecchiamento. Siccome il tempo passa per tutti allo stesso modo, guardandola mi chiedo se anch’io sia invecchiato così tanto.

‒Insomma, cosa mi racconti?

Dice che ha dei problemi col frigorifero, che prima o poi dovrò aiutarla a cambiarlo. Parla del lavoro, dei soliti problemi, che ultimamente dorme male. Dopo un po’ non ascolto più. Quando il suo discorso cade nel silenzio mi domanda come va l’indipendenza, la casa nuova.

‒Bene! Ieri ho invitato qualche amico a cena.

‒Ah! E io quando posso venire?

‒Però non avevo un tegame abbastanza grande per la pasta.

‒Quando m’inviti?

‒Non hai bisogno dell’invito.

Le sorrido ma lei distoglie lo sguardo. Mia madre è così, mi fa sentire continuamente in difetto. Suppongo tutti i genitori lo facciano ogni tanto. Del resto il debito degli sforzi genitoriali è insanabile per natura.

‒Che facevi al cellulare?

Cerco di cambiare discorso.

‒Ah, niente di che. Guardavo, sai, come si chiama…

‒Facebook?

‒Sì, quello.

‒Da quando hai Facebook?

‒Me l’hanno messo i colleghi, sai, niente di che, non lo so usare…

Fa la vaga, mi viene subito il sospetto che controlli papà. La cosa mi stupisce. È un comportamento che mi aspetterei da un adolescente, ma effettivamente quando veniamo lasciati diventiamo tutti un po’ adolescenti.

‒Controlli papà?

Lei ride, dissimula come colta sul fatto.

‒Ma no, cioè, ero curiosa.

Mette via il telefono e si alza.

‒Ho sete.

Va al tavolo e si versa un bicchiere di vino.

‒Se hai sete bevi l’acqua – le dico.

‒Lo sai che l’acqua non mi piace.

È una scusa così stupida che non so che rispondere. Non ci prova nemmeno a giustificarsi, è cosciente del suo problema e non le interessa correggerlo. Quando ero bambino e assistevo ai litigi tra lei e papà, ricordo che rimaneva sempre qualche vetro rotto.

‒Tu lo senti? – chiede.

Beve qualche sorso di vino e mi fissa. Parliamo tutti i giorni io e papà, ma non voglio mortificarla.

‒Ogni tanto.

‒Ti parla di me?

Ogni tanto – ripeto.

Fa una smorfia con la bocca, come disgustata.

‒Sono sciocca lo so.

Torna a sedere sul divano, appoggia la testa, stancamente.

‒Quando ero giovane ho avuto tanti ragazzi.

Spalanco gli occhi sorridendo, come per chiederle se sia seria. Non mi aspettavo questo slancio di confidenza da mia madre.

‒Sì, ne ho avuti parecchi. E quando finiva bastava un addio. Non c’erano cellulari, messaggi, Facebook. Le persone sparivano e tu andavi avanti con la vita. Oggi è diverso. Potrebbe scrivermi in qualsiasi momento ma non lo fa. Ignora le mie chiamate, aspetto giornate intere. Il dolore si rinnova continuamente, capisci?

Annuisco ma non posso capire.

‒Ogni giorno mi sveglio e spero che il telefono squilli. Non riesco proprio a farmene una ragione. È lì, a portata di telefono, eppure non c’è.

Beve un altro sorso di vino, si tira via dei pelucchi dal maglione e scuote la testa. Tiene lo sguardo basso.

‒È difficile ripartire alla mia età, sai?

Ora si è fatta triste. Mi sento a disagio, non so che dire. Odio quando fa la tragica, è uno dei motivi per cui vengo poco a trovarla. Alla fine le metto una mano sulla spalla. Provo a consolarla.

‒Ehi, ci parlo io, gli dirò di chiamarti.

Sappiamo entrambi che non cambierà nulla, ma lei si scioglie un po’, mi abbraccia e nasconde la testa nella mia spalla. Le accarezzo la schiena, come una grossa bambina. Ce ne stiamo un po’ così, in silenzio. Mi chiedo se è in momenti come questo che si diventa adulti, quando i genitori smettono di essere genitori. Dopo un po’ fa un bel respiro e si tira su, energica, come per dire che è tutto passato. Ha ancora il bicchiere in mano e muovendosi mi versa del vino addosso.

‒Oddio scusami!

‒Non è niente.

‒Aspetta, vieni qua.

Mi prende per mano e mi porta in bagno. Mi fa togliere la maglia. Rimango incastrato con un braccio e ridiamo un pochino. La mette sotto l’acqua e la strofina col sapone. Io guardo con le braccia conserte, le spalle strette per il freddo. Ogni tanto alza la maglia e controlla che la macchia sia sparita. Finito di risciacquare, la strizza e prende l’asciugacapelli. Le dico che non importa, ma lei insiste. Prova ad asciugare la maglia col getto di aria calda. Il rumore è rilassante, mi ricorda l’infanzia. Da bambino avevo paura di affogare sotto l’acqua, allora era lei a lavarmi i capelli. Poi me li asciugava a lungo, e a volte mi addormentavo per il tepore tra le sue braccia. Provo nostalgia di quel momento. Io e mia madre non torneremo più quelli di una volta, ma forse lei non lo sa. Adesso mi guarda e sorride. Le metto un braccio attorno al collo, appoggio il mio viso al suo, e fissiamo la maglia asciugarsi.

Un racconto di Francesco Casini

Illustrazione di Alessia Arti

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