Duemilazeroqualcosa

A vuoto. A vuoto. A vuoto. Maledetto Sì Piaggio, la candela che non va. Riprovare. Il pedale sgarganella. Riprovare. Un soffio, uno sbraaat, il silenzio. Per oggi, niente da fare. Nokia 6282. Chiamata non risposta: Alessia cell.

A vuoto. A vuoto. A vuoto. Con questo caldo che ti esplode nelle orecchie. Estate sorda e scolorita. Gonnelline sulle bici, uno svolazzo e a mai più. Renault Clio con parafanghi scheggiati, portiere rigate. Padri di famiglia che fanno nostalgia. Fanno invidia. Di che, poi? Di sicurezze, di letti caldi, di grasso.

A vuoto, a vuoto, a vuoto. Dunque, fare il punto della situazione. Luglio anni zero, nel senso di duemilazeroqualcosa, zerocinque, suppergiù. Palermo, quarantuno gradi all’ombra. Via Papireto, angolo via della Speranza. Sì Piaggio che dice no, per lo meno non adesso. Con Alessia faccio il fantasma. Da due giorni lascio squillare a vuoto. A vuoto. A vuoto. Agli sms nessuna risposta. Uno, due, venti. Vorrei, ma non voglio.

Tentazione improvvisa, arriva al naso e afferra per il colletto della polo. Può farlo, un profumo? Può farlo, acchiappare per il bavero e portare dove vuole. Lasciare in asso il motorino, rimuovere per un momento il destino di Alessia lasciata a friggere. Sopportare il caldo e seguire l’odore dentro via della Speranza.

Appena a destra, il motivo di tanto paradiso olfattivo in un carnevale grande quanto un dammuso. Panelle cazzilli rascature mulinciane a quaglia sarde a beccafico vruoccoli a pastietta caidduna arancine accarne abburro… Odore-sciauru-profumo che se fai una domanda alla tua panza che si arranocchia pare che già ti sei mangiato tutto e ancora non hai detto bizz.

Il padrone della festa ha una fallara grembiule tutta a macchie di olio e di ragù. È piccolo come un pigmeo e la pelle scura di uno che ha passato la vita davanti alla fiamma però ha i capelli biaaaaanchi, lucidi e bianchi, che pare la rappresentazione del Vecchio Tirinnanno. Questo rassicura, e rassicura anche di più una scritta di mano incerta su cartone: PANI E PANELLI FANNU I FIGGHI BELLI.

Il caldo è alle spalle, gli abbandoni di donne e motorini pure. Dire «un mezzo pane. Cazzille» a bassa voce, sparagnino di fiato. Il candido pigmeo fa danzare la forchetta, ingozza il mezzo pane di crocchette di patate con pepe e prezzemolo. Al primo morso, stappa uno scioppino di Partannina. Se la versa, me la versa. «Questa offro io» dice. Ad uno sguardo stupito, sentenzia: «’inchia càvuru». Mando giù. Zucchero e miele, fritto e acido citrico, una punta di spillo si alza nell’aria e spacca a metà l’estate. È solo un rutto. Ringrazio.

A vuoto, a vuoto, a vuoto. Frugare, cercare, disiare uno straccio di euro, di moneta da cinquanta cent, di qualcosa. Possibile non avere nulla? Possibile, possibile a diciannove anni e la testa lèggia. Il pigmeo assiste al pietoso rigirare di tasche. Anticipa ogni scusa. «Per mezzo pane? Domani me li dai, che fa, hai intenzione di morire?». 

Morire no, ma tre settimane sono passate. Sì Piaggio sistemato. Ora scatarra che pare una motozappa, e chi ci ferma? Mondello, Monte Piddirinu, ovunque ce ne andiamo. Era la candela. Piena di olio, intasata.

Tre settimane di stare io e me stesso. Mare, mare, mare. Birre solitarie. Amore in fase di riflessione. Chiamate, messaggi a vuoto, a vuoto, a vuoto. Languore di qualcosa. Forse ci colpa agosto in fase inoltrata, forse fa groppo intravedere la ripresa degli esami, delle lezioni, dell’odore dei temperini, dei quadernoni. Forse ci colpa il ricordo di quel fritto.

Palermo, trentacinque gradi all’ombra. Via Papireto, angolo via della Speranza. Questa volta tutto fila liscio. Posteggiare con cura, sentire il tintinnio dei pìccioli in tasca. La leggera inquietudine di fine estate è solo un languore. Farsi mangiare dal vicolo. Sulla destra, niente. Niente carnevale, niente panelle a fare i figli belli. La friggitoria scomparsa, l’artificio e il suo artefice, il pigmeo coi capelli biaaaaanchi. Magari errore di vicolo. La memoria fa brutti scherzi. Via Papireto, via della Sfera. Niente. Via della Speranza, di nuovo. Cercare. A vuoto, a vuoto, a vuoto. Scomparso, come un fantasma.

Odore di munnizza, questa volta, di pesce fradicio del mercato vicino, della sigaretta di un tizio seduto su uno scalino.

«Ma… il panellaro?», indicando il dammuso che faceva felicità.

«Eh», gesto con la mano a squadrare l’aria «Ora sta più meglio di prima».

I pìccioli caldi caldi nella tasca, le basole lisce, la paura di essere soli per sempre, sotto questo cielo.

Chiamare subito Alessia. Non c’è altra soluzione. A vuoto, a vuoto, a vuoto.


Un racconto di Michele Burgio

Illustrazione di Giulia Canetto

4 thoughts on “Duemilazeroqualcosa

  1. Fantastico.
    Nasce una bella riflessione, niente è scontato, nessuno è per sempre.
    Restano però i ricordi di chi con un cartellone scritto ‘appenna
    regala goduria al palato con la semplicità di chi ha un cuore nobile.
    Leggendo ho sentito Lu sciaru delle pianelle, ho visto il tizio che squadra l’aria, il ragazzo con la testa leggia…..
    Amiamoci e rispettiamoci senza aspettare che siano gli eventi a scegliere per noi.

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