Columbia, Houston

«Ti racconto ‘sta storia, papà.

Novembre 2020, e stavo già da solo. Eravamo appena tornati, Erika mi si era portata via ogni cosa, e tutto quello che mi era rimasto era quella cagnetta, te la ricordi Bigina? Ce ne stavamo in casa tutto il giorno, io a fumare e lei a rantolare per la malattia ai polmoni; sembrava colpa mia, che per quanto fumavo il tumore se lo fosse preso lei. Fatto sta che avevo trovato questo tizio su internet, scelto un po’ a casaccio, col dubbio che fosse la scelta sbagliata.

E infatti, quando ho aperto la porta e l’ho visto… subito ho provato sollievo a vedere che era più basso di me. Non so perché ma questo mi aveva rincuorato, ed era praticamente l’unica cosa rassicurante che aveva. Barba sfatta, doppio riporto… quella bruttezza che ti fa provare repulsione e compassione insieme. Lui nemmeno mi ha detto il nome, solo: “Sei tu che hai messo l’annuncio pel cane?”.

Ho annuito, l’ho invitato a entrare ma lui ha scosso la testa, già col portafoglio in mano. Gli ho dato non ricordo quanto, forse venti euro, era prima che crollasse tutto e l’euro valeva ancora qualcosa. Insomma, gli do i venti o trenta che fossero, lui se li prende al volo e mi fa cenno verso la sua macchina, una Panda viola scassata parcheggiata nell’aia.

Gli chiedo: “Ma come, non lo facciamo in casa? E lui mi risponde serio, ma che, poi vuoi pulire tutto qui? Ci mettiamo cinque minuti, ho un posto che conosco io”.

A quel punto mi sarei voluto tirare indietro ma non si poteva ormai; come mi fossi coscritto in una massoneria che non potevo più tradire. D’altra parte quei quattrocento euro per farlo fare al veterinario io non ce li avevo, e il fegato di farlo io nemmeno.  E allora vado a prendere il cane con tutta la cesta, la copro bene, e tenendola bella stretta mi avvio alla macchina. Di quel pomeriggio ricordo che non era ancora buio, e ovviamente c’era nebbia; pareva di stare in un orizzonte, tutto compreso nel cerchiello di un cannocchiale. Non si sentiva nulla, e io immaginavo di guardarci dall’alto, da un pianeta lontano.

Giriamo alla cieca per un po’, il tizio guida come se conoscesse ogni viuzza. Dopo cinque minuti mi ero già perso, anche se eravamo nelle stradine della Giacoma o verso i Bonecati, la zona era quella. Io sentivo il cuore che mi batteva sempre più forte, sempre di più pensavo “non voglio farlo”. Lui invece, sereno, a un certo punto mi ha offerto una sigaretta, che ho rifiutato per paura di vomitare.

Poi arriva in uno spiazzo isolato, ferma la macchina e le lascia i fari accesi, a illuminare, che ormai non si vedeva più molto.

L’erba è morbida e non c’è fango. Siamo sotto a una quercia e lui gira intorno alla macchina per prendere una vanga dal baule, e me lo trovo davanti con una pistola in mano.

Subito ho fatto uno scatto, non me l’aspettavo proprio. Devo aver alzato il palmo d’istinto, perché lui mi ha fatto segno alla sicura, con l’altra mano, per farmi vedere che sapeva quello che stava facendo. Ma non era quello il problema. A quel punto mi stava salendo un tremore, forse era anche il freddo. Non ce l’ho fatta più, non sapevo come uscirne, e gli ho detto “T’aspetto in macchina”. Sono tornato sulla Panda e ho riacceso il motore, ho riacceso la radio, mi ballava tutto, alla fine ho spento radio e motore e ho messo una canzone a caso dal mio cellulare. Aveva in mezzo una voce campionata, il dialogo di una radio di bordo. “Columbia, Houston”, ripeteva, “Columbia, Houston”. Ascoltavo, e il tizio sbadilava la terra gelata, e pian piano a vedere lui che lavorava il tremito m’è passato, mi sono incantucciato nella giacca e ho atteso un po’. Con quella canzone in sottofondo mi pareva di essere in una navicella spaziale persa nel fumo, come nei vecchi film di fantascienza. Bigina sporgeva la testa atterrita dalla sua cesta, mi cercava, la vedevo da dentro, e non posso fare a meno di ricordarmi ancora il suo musetto da Laika.

Poi in pochi secondi il tizio ha gettato il badile, si è voltato. Ho visto un lampo, e ho sentito uno scoppio, più leggero di quanto credevo, come un sacchetto di carta schiacciato tra le mani.

Siamo tornati in silenzio, io avevo un buco nel petto che non se n’è più andato, anche se era solo un cane che sarebbe morto in ogni caso, e non gli volevo nemmeno bene. Era il cane di Erika, in fondo, e questa era solo l’ultima cosa che mi legava a lei. Però era anche la cosa più simile a un figlio che avessimo avuto io e lei insieme, anche se tu me lo dicevi sempre che un figlio è n’altra cosa.

So solo che non doveva andare così.

In quella canzone, l’ho scoperto dopo cercando su Google, c’è la registrazione del Columbia, uno Shuttle che è esploso uccidendo tutto l’equipaggio. E quelle voci erano così calme, gente che si fa legare su duemila tonnellate di propellente e sparare nello spazio e ha questa voce qua, tranquilla, anche quando qualcosa non va; e io non sono riuscito nemmeno a dire a questo tizio sconosciuto di lasciar perdere, che Bigina si meritava di morire a casa, mentre io la guardavo negli occhi e gli sussurravo che sarebbe andato tutto bene, anche se non c’è un paradiso dei cani e forse è meglio così».

La sigaretta era finita, la schiacciò nel posacenere e alzando lo sguardo vide che suo padre provava a parlare. Gli si avvicinò e gli sistemò la coperta sulle gambe, lo spinse alla finestra sporca che dava sulla campagna, trascinandogli dietro la bombola. E lui, guardando dal vetro polveroso, tra fischi e sibili catarrosi sputò fuori:

«Dici che all’ospedale s’incazzano quando vedono che mi hai portato via?».

Il figlio non rispose, guardava fuori la bruma che galleggiava come panna sui campi arati, mentre il cielo iniziava a colorarsi di arancio.

E ‘sticazzi, pensò.

Illustrazione di Incorrect

Federico Zagni

Federico è un ingegnere a cui piace smontare le storie per capire come sono fatte, e rimontarle per capire come funziona la vita. Emiliano, millennial per un pelo, cerca di imparare una parola nuova ogni giorno, ma è una fatica sesquipedale. Nelle sue bio un’informazione è sempre inventata, inutile o inopportuna.

2 thoughts on “Columbia, Houston

    1. Grazie! L’articolazione nel doppio narratore l’ho tenuta dopo un po’ di riflessioni, perché si appaiasse con il parallelismo tra Bigina e il padre. Non ero certo che funzionasse (non a tutti è piaciuta) ma volevo che il pezzo finale con il cambio di fuoco arrivasse un po’ a sorpresa, come quando qualcuno ti racconta una storia in cui ti perdi fino a dimenticarti il luogo in cui ti trovi. Contento che ti sia piaciuta.

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