Scacchi

Il giorno non era ancora finito, che già sentiva quella solita stanchezza. Lasciando la mano sospesa, scrutava silenziosamente il campo di battaglia bicromatico, i pezzi disposti in una statica, eppure feroce mischia all’ultimo sangue.

La perdita di energia lo portava progressivamente al torpore, fino a quando di colpo tutto non si faceva buio e cadeva improvvisamente addormentato.

E dire che una volta aveva tutta l’energia di un campione. Lo era ancora, naturalmente, ma invecchiava, più velocemente di quanto si aspettasse, e più il suo corpo arrugginiva, più le forze si perdevano in fretta. Le sue partite di scacchi si facevano lente, meditabonde, guerre stanche costruite su schemi crudeli che conosceva a memoria. Nonostante questo, era consapevole delle sue abilità, tanto sicuro da non temere alcun avversario. Ma quello del giorno successivo non sarebbe stato un avversario normale.

La sua mano continuava a rimanere tesa, ferma sulla scacchiera. I suoi occhi studiavano la disposizione dei pezzi. Calcolava con attenzione ogni trappola e tattica, ma presto si sarebbe consumato del tutto e, prima di accorgersene, sarebbe precipitato nel buio. E quando ne sarebbe uscito, forse avrebbe affrontato la sua ultima partita.

La sua ultima, si era ripetuto a bassa voce, senza finire la frase prima di precipitare nel sonno.

Il corridoio era bianco, lungo e non odorava di niente. L’uomo che era venuto a prenderlo all’entrata indossava un camice immacolato, tanto pulito da brillare debolmente sotto la luce bianca dei tubi al neon. Tutto intorno a lui sembrava emanare luce, come se le ombre e i punti ciechi non fossero ben visti lì dentro. Questo lo fece sentire un po’ a disagio, anche solo per l’ombra che proiettava.

L’uomo con il camice non aveva aperto bocca, solo un cenno di saluto. Il Professore gli aveva già spiegato tutto giorni prima, quindi non c’era motivo di stare a parlare con lui. Lo aveva solo accompagnato, gli aveva aperto la porta in fondo al corridoio ed era tornato sui suoi passi.

La stanza in cui lo aveva lasciato era ampia, sgombra e asettica. Al centro, solo un tavolo con sopra una scacchiera. Dietro, un processore e un braccio meccanico, immobili. La spia verde dello standby lampeggiava.

Si era guardato intorno, cercando di acclimatarsi, ma non c’era nulla se non le telecamere da cui avrebbero controllato la partita. Quindi non aveva indugiato oltre: si era seduto al suo posto, di fronte al macchinario grande quanto un bulldog, e aveva fatto la prima mossa. Pedone avanti, gambetto di donna, un inizio aggressivo. Dopo un secondo, il braccio si era mosso, calandosi compostamente sulle pedine: cavallo avanti, difesa Chigorin, una risposta insolita, ma sorprendente. Già sentiva la fatica coglierlo, l’incontro sarebbe stato molto lungo.

Fin da quando era nato, gli avevano detto che la sua mente era speciale. Che aveva qualcosa di diverso da tutte le altre. Questo gli aveva portato poca fortuna, perché la sua esistenza l’aveva passata sotto esame. Lo avevano studiato così tanto, nei suoi primi anni di vita, che anche quando era cresciuto e aveva guadagnato una certa autonomia, non poteva svolgere attività piacevoli senza sentire il peso di un gigantesco occhio puntato contro.

Aveva scoperto che gli scacchi erano un’inclinazione naturale per lui e aveva sperato di potercisi dedicare per puro piacere, ma non appena ebbe afferrato i rudimenti del gioco e disputato le sue prime partite, ecco che quelle aspettative tornavano a trascinarlo giù. Non poteva fare a meno di notare le mancanze dei suoi avversari, le carenze nella costruzione di strategie e la loro incapacità di prevedere le sue trappole. E così facendo, non poteva fare a meno di notare quanto inesplorate rimanessero le sue capacità. Ogni partita gli lasciava in bocca la sensazione di un esame fallito, lui che non ne aveva mai persa una in tutta la sua vita.

Con Void era diverso, pensava, mentre la chela cromata posava con precisione un alfiere nel mezzo della sua catena di pedoni sacrificandolo per rompere la sua difesa. La spia verde non lampeggiava più, i processori della macchina stavano dando tutta la loro potenza, e si vedeva. Gli aveva mangiato l’alfiere con il primo pedone della catena, aprendola, e si era messo in attesa della contromossa.

La mischia di pedine, un’intricata rete di linee di movimento, un insieme di trappole pronte a scattare. La sua mente eccezionale, avrebbe voluto nessuno la scoprisse. Ripensava alla depressione della sua vita, a quando pensò di lasciarsi morire, dopo aver conquistato un’altra vittoria. Ma quello sguardo pesante che sentiva dentro, il germe di ogni sua aspettativa, glielo aveva impedito. Avrebbe continuato a lottare, a costo di un’eterna insoddisfazione.

Era immensamente felice, nonostante la stanchezza e la mancanza di energie. Ogni sua mossa apriva all’inganno successivo, che Void prevedeva almeno quattro movimenti prima e che lui contrattaccava di continuo con una trappola nascosta. Una catena algoritmica, un vortice di frattali in un gioco al massacro. Da quando il Professore gli aveva presentato Void, qualcosa si era riacceso in lui. Dopo un lungo periodo in ospedale, addormentato dopo il terribile crollo, aveva incontrato una mente capace di spuntare tre pareggi con lui. Una mente affine.

Non aveva tempo di pensare ad altro. Non alla sua vita sotto esame, non a quelle aspettative, né al tempo che gli avevano rubato. Per la prima volta, non aveva tempo per porsi domande su chi fosse, su cosa ci facesse in un’esistenza che non capiva del tutto. Ora poteva pensare solo alla partita. E dopo di quella, si era detto posando la torre che nascondeva dall’inizio, ci sarebbe stato silenzio.

Scacco matto, annunciò il Professore entrando nella stanza. Il braccio di Void rimase immobile: se fosse irritato dalla sconfitta non si poteva capire. La mano del Professore gli si posò sulla spalla.
Dopo una vita di insoddisfazione,  aveva finalmente superato il suo esame. Aveva conosciuto il suo limite estremo, il picco delle sue capacità, e le aveva addirittura superate.

Per un attimo, non pensò a niente se non a quella vittoria, mentre le dita del Professore premevano l’interruttore sulla sua nuca e le funzioni della sua mente eccezionale si spegnevano lentamente.
Aveva vinto.

Illustrazione di Michele Antolini

Guido Zanetti

Guido nasce a Genova nel 1992. Cresce a Pavia, dove studia filosofia per tre anni e tre quarti. Corre a Torino, dove studia sceneggiatura alla Scuola Holden.

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