Briciole

Basta?, pensa.

Il telefono in mano.

Potevo volere ancora qualcosa.

Sposta lo sguardo senza spostare la testa. Legge il menù. Un numero sei, due numeri quattro, due numeri dodici, un numero ventinove, un numero trenta.

Potevo volere ancora qualcosa. Potevo metterlo in freezer se avanzava.

Non avanza mai nulla.

Richiamo?

Fa niente. No. Va bene così.

Posa il telefono. Si alza in piedi, va verso il frigo, inciampa in un calzino. Sbatte contro il tavolo, le bottiglie tremano l’una contro l’altra, tlin tlin tlin tlin tlin, una cade sul piano di legno, rotola, piena per metà, forse meno di metà, il fondo di birra si versa.

La guarda.

Guarda il liquido spandersi, allungarsi, farsi appena un filo nelle venature. Lo guarda confondersi col legno, come assorbito. La schiumetta ai bordi, appena creata, svanire.

Fai un po’ d’ordine, disastro, mi diresti sorridendo e sparendo in camera prima che arrivi il fattorino con la cena.

Fai un po’ d’ordine, avresti detto.

Invece non dici nulla, anche se sento la tua voce.

Faccio un po’ d’ordine, allora.

Guarda la birra versata. Prende lo straccio fra le tazze rigate di caffè e la padella con le croste di pane dentro. Apre il rubinetto, sposta lo straccio sotto il getto d’acqua, lo stringe. Le nocche gli diventano bianche. Passa lo straccio sul tavolo portandosi dietro il liquido versato e le briciole diventate mollicce. Si porta la mano davanti alla faccia. Non sono più briciole. Non si distinguono le une dalle altre, erano briciole, adesso sono diventate una striatura bianca che corre lungo la mano che cola birra.

Una birra si è rovesciata anche l’ultima volta che eri qui.

Non ricordo se l’ho fatta cadere io, non ricordo se sei stata tu, ma i tuoi gomiti erano sul tavolo, i calzini erano puliti nella cassettiera, la tua voce  era nella tua bocca invece che nella mia testa.

Ricordo la tua voce ma non ricordo cos’hai detto.

Ricordo la tua voce.

Non ricordo cos’hai detto.

Qual è l’ultima cosa che hai detto?

Cosa mi hai detto, prima di andare via?

Devo fare ordine.

Su questo tavolo.

Adesso.

Passa la mano sotto l’acqua, strofina lo straccio, lo strizza, dà un’altra passata al legno. Con più forza di prima, preme sulla superficie come per levare una macchia. Non c’è nessuna macchia. Toglie le bottiglie, il secchio dell’immondizia è pieno, l’altro pure, posa a terra le bottiglie. Dà un’altra passata ancora, di nuovo, rubinetto, apre, acqua, strizza, struscia, sciacqua.

Come per levare una macchia.

Non c’è nessuna macchia.

Nel cassetto delle posate ci sono solo coltelli. Cerca una forchetta nel lavandino tra i piatti con gli avanzi. È incrostata. La lascia cadere, ne cerca un’altra. È incrostata anche quella. Prende un bicchiere, lo riempie d’acqua fredda, ce la immerge.

Guarda l’orologio. Tra poco suonerà il campanello.

Devo fare ordine.

Si guarda attorno.

Le cartine delle caramelle, le ossa del pollo, il telecomando senza pile, una sciarpa, tappi, il posacenere con il caffè dentro, una scarpa sinistra, un ombrello aperto, libri, fiches, i vasi con le piante secche dentro, che pianta era?, me lo devo ricordare, devo fare ordine, come faccio a fare ordine se non mi ricordo qual è l’ultima cosa che mi hai detto? Come faccio a ricordarmi la tua voce, i tuoi gomiti sul tavolo, la felpa del luna park, la collana rotta, le tue sopracciglia diverse, la fine della tua treccia, il tuo respiro quando mi chiami, i tuoi piedi quando dormi, l’aceto sulle cipolle, il ristorante dove tu lo sai quale ristorante dico, le tue cuffie che ti rubo, il mio cappotto che mi rubi, la tua bici senza un freno, le scale di quella che avrebbe dovuto essere casa nostra, come faccio a ricordarmi come ridi quando sei felice, come ridi quando non ci credi, come ridi quando hai sonno, io come faccio a ricordarmi tutto questo ma non quello che mi hai detto prima di andartene senza tornare?

Come faccio a fare ordine senza ricordarmi questo?

Dovrei prendere il telefono, lo so che non si può ma dovrei prendere il telefono e dirti oh, dimmi solo questo, cos’è che hai detto l’ultima volta che eri qui, l’ultima cosa che hai detto, solo questo, per favore, devo fare ordine capisci, devo riuscire a ricordarlo così poi non ci penso più, puoi dirmelo per favore, anzi facciamo così, chiamami tu, lo so che non si può, ma chiamami tu, per favore, una volta sola, mi chiami e mi dici oh, questa è l’ultima cosa che t’ho detto, anzi no, dilla e basta, mi chiami, me la dici e non dici altro, solo questo, adesso squilla il telefono, io rispondo e tu mi dici l’ultima cosa che m’hai detto, poi riattacchi, così, liscio, io non dico nulla,  fidati, promesso, ascolto solo, sono pronto, ora squilla il telefono e sei tu, devo fare ordine capisci, mi dici questo e poi nient’altro, adesso squilla il telefono e nient’altro, adesso squilla il telefono e sei tu, ci stai, devo fare ordine capisci?

La vibrazione arriva alla mano prima che la suoneria alle orecchie.

Ha la mano sul tavolo, e il legno vibra insieme al telefono.

Sta squillando.

Squilla.

Sta squillando il telefono.

Ha la vista offuscata, gli occhi non rispondono agli imperativi semplici.

Non vede.

Le orecchie fischiano.

La mano trema, anche il telefono.

Lo alza, trema, il pollice scorre sullo schermo, trema, porta il telefono all’orecchio, trema.

Il torace si allarga, si contrae, di fretta, l’aria gli passa su e giù per la gola, la secca, secca la lingua, secca il palato, secca la superficie dei denti.

Inghiotte.

Non ha saliva da mandare giù.

Il telefono trema contro l’orecchio, trema la mano che lo sostiene.

Dall’altra parte, da tutt’altra parte sente, lontano, dire: “C’è stato un problema con il suo ordine.”

Fischio sottile, torace contratto, niente saliva da mandare giù.

“Signore, mi sente?”

Saliva da mandare giù.

“C’è stato un problema con il suo ordine. Mi sente? Può ripetermi qual è il suo ordine, signore?”

Le briciole attaccate al dorso mano.

Non sono briciole.

Striatura bianca, informe, lungo la mano umida di birra.

“Il suo ordine, signore?”

Illustrazione di Maria Caruso

Martina Vianovi

Passati i trenta, al ritenersi una persona seria preferisce: annaffiare il basilico, fare bozzetti ad acquerello, girare in bici fino a perdersi, godersi l’odore delle quinte in teatro, fuggire verso il mare ogni volta che può, scrivere di notte. Cosa porteranno i prossimi trenta non sa, ma non vede l’ora di scoprirlo.

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