Tre giorni dopo

Sopportava di tutto. Non sapeva dirle di no. Aveva accettato di sposarla il giorno stesso in cui seppe che era rimasta incinta. Lei aveva sedici anni, lui venti e un impiego come garzone nella panetteria sotto casa. Con il tempo si erano accorti che i soldi non erano mai abbastanza. Un secondo e un terzo lavoro come fattorino e aiuto barbiere erano insufficienti per appagare i capricci di mia madre. Sei tu il coglione, Fredo, gli diceva. Se lavori così tanto significa che non hai capito niente della vita. Dovresti semplicemente imparare a esser ricco. 

Lo tradiva, certo. Mentre mio padre si dannava l’anima e soddisfava con ogni centesimo guadagnato tutti i capricci di mia madre, lei si mangiava gli uomini del palazzo dove abitavamo come fossero caramelle. Bigiavano il lavoro pur di stare con lei. Li riceveva al pomeriggio, mentre io facevo i compiti in cucina, e sentivo la testiera in ottone del letto battere ritmata contro la parete. Dopo, quando mi vedevano, lentiggini e pantaloni corti sotto il tavolo, facevano un’espressione contrita e mi spettinavano i capelli. Qualche volta mio padre li incrociava sul pianerottolo e li invitava a prendere un caffè che solo alcuni avevano il buon gusto di rifiutare. 

Per anni mi sono interrogato se lui sapesse, se comprendesse davvero la situazione. Non ho mai trovato il coraggio di chiederglielo, anche se di notte lo sentivo alzarsi, andare in cucina, aprire il frigorifero, versarsi un bicchiere di latte e rimanere a fissarlo al tavolo per ore. 

E poi c’era l’altra questione. Il mio tormento, arrivato da una vecchia zia alla mia festa di laurea. Si era avvicinata per baciarmi. Non la vedevo da anni. Vaghi ricordi di pomeriggi trascorsi in spiaggia, e lei, obesa e ridanciana, che si teneva il cappello con la mano per non farselo portare via dallo scirocco.

Mi aveva fatto i complimenti, e poi all’improvviso aveva tirato in ballo la questione, tra un commento sulla festa e l’altro. Sai, tuo padre – nemmeno l’avevo interiorizzata subito questa frase – era vergine quando Maria s’è presa incinta e l’ha sposata. E il bello è che pure tua madre era illibata. Puri entrambi. 

Da non credere… Superato lo shock mi è rimasta dentro una gran rabbia verso mio padre. Ero disgustato dalla sua ridicola credulità. Il modo in cui ha sempre chinato la testa, in cui negli anni ha chiuso gli occhi davanti all’indifendibile. Il suo crogiolarsi in atteggiamenti servili e masochistici, quasi che farsi umiliare da tutta la vita fosse un qualche tipo di gioco perverso. 

Due giorni fa mamma è morta, a settant’anni, nel suo letto con la testiera in ottone. Il suo corpo, rigido e pallido, era piccolissimo.

Come hai potuto crederle, papà?

Lui la guardava con occhi traballanti di lacrime. Non è il momento, ha risposto.

Non è mai il momento.

Non è così semplice. C’è una spiegazione. 

Certo che c’è.

Non è quella che pensi tu. Tu non sai niente. Mi adorava, all’inizio. Beveva il vino dalla mia bocca. Quando la carezzavo le sentivo l’anima scricchiolare in corpo. Accetta la realtà, figlio mio. Tu sei un miracolo.

Al funerale c’era molta gente. Mentre quattro beccamorti la calavano nella fossa con le funi, mio padre si è gettato sulla bara battendo i palmi delle mani sul mogano chiaro e piangendo. Non ce l’ho più fatta. L’ho preso per la giacca e l’ho colpito con un pugno in pieno volto. Il prete era sbigottito. Guardami, ho gridato a mio padre disteso a terra. Ti sembro Dio fatto uomo? Ti sembro Gesù Cristo? Poi ho sentito un formicolio lungo il braccio sinistro, la vista mi si è annebbiata, ho annaspato in cerca di un appiglio che non c’era e sono crollato all’interno della fossa.

Tre giorni dopo sono resuscitato.

Un racconto di Edoardo Arzenton

Illustrazione di Elisa “Invy” Inverardi

Lascia un commento