Cinque colpi

Il 15 giugno 2003 tutti i giornali parlarono dello stesso evento: nottetempo, qualcuno era entrato nel casale di Ivano Canelli e aveva assassinato moglie e figli con tre colpi di pistola.

Quello che non avevano riportato era l’indecisione che mi aveva colto osservando i volti placidi dei neonati. Ero stato sul punto di rinunciare. Poi avevo ripensato a quel giorno di tredici anni prima. Allora avevo preso un cuscino, puntato ai cuori e premuto due volte il grilletto. Avevo atteso che la madre entrasse nella stanza a controllare i bambini. Pietrificata dall’orrore, era stata un bersaglio facile.

Non avevano riportato neanche che Ivano Canelli fosse figlio di Agata, e dell’uomo che tredici anni prima – il giorno del mio decimo compleanno – era piombato in casa nostra uccidendo mia madre e mia sorella, prima di cadere sotto il colpo della 686 sparato dalle ultime forze di mio padre.

Ero rimasto in quella casa per quasi una settimana, incapace di mangiare e dormire, al cospetto dei cadaveri.

Poi era arrivata la polizia, e gli assistenti sociali, gli psicologi, gli avvocati. Anni di case famiglia, anni di mutismo. Parlavo solo col cuore immacolato di Maria, con la statua che avevo chiesto al parroco dopo il funerale. Non aveva avuto il coraggio di rifiutarmela. L’ho portata con me ovunque sia andato. Maria è mia madre, la mia consolazione. Per lei sono entrato in seminario, appena compiuta la maggiore età.

Della mia famiglia cominciavo a dimenticare persino i volti, le voci. Di loro non conservavo niente, solo il revolver di mio padre e i cinque proiettili rimasti. Lo tiravo fuori di notte, lo scaricavo, lo stringevo a me. Solo in presenza della statua e della 686 riuscivo ad addormentarmi.

Ho fatto le mie domande, svolto le mie indagini. Presi i voti, ho richiesto il trasferimento nella parrocchia del paese accanto al loro. Li ho seguiti per le strade. Nessuno di loro conosceva il mio volto: nessuno avrebbe associato il giovane don Mario al figlio di Diego e Diana Rosato, massacrati a colpi di lupara.

Ivano viveva con la moglie, i due figli appena nati e la madre Agata. Cinque persone per cinque colpi. Incisi sui proiettili le loro iniziali.

Dopo quel 15 di giugno, Ivano e Agata si trasferirono al nord. Per qualche tempo girarono con la scorta.

Per anni, appena terminavo le messe, riprendevo la caccia. Quando somministravo la comunione, quando ascoltavo le confessioni e dispensavo Ave Maria e Pater Noster, ripensavo all’espressione di quella donna il giorno dei funerali della mia famiglia. Si era avvicinata all’altare e aveva sputato sulle bare, poi aveva accarezzato con dolcezza la statua di Maria e si era allontanata col figlioletto.

Ci sono voluti oltre dieci anni prima che Ivano si sentisse al sicuro. L’ho colto un giorno di primavera. Era invecchiato male, aveva i riflessi lenti. Il proiettile con la I incisa ha trapassato anche il suo cuore. Deve avermi riconosciuto solo poco prima dell’ultimo respiro. L’ho sepolto fra le margherite del suo giardino. Lo cercano ancora.

Ho continuato a celebrare battesimi, matrimoni, funerali sperando di ritrovare Agata. Mi sono rivolto a Maria la mattina all’alba, le ho parlato la sera prima di coricarmi. La statua mi restituiva uno sguardo opaco ma sapevo – ne ero certo – che fosse dalla mia parte. Anche lei deve aver odiato, almeno per un breve istante, chi le ha crocifisso il figlio.

Maria mi ha ascoltato. Circa due anni fa la vedova Canelli, nell’anniversario della morte del figlio, ha donato ventimila euro per la ristrutturazione della chiesa di un paese vicino Perugia. Ho atteso qualche mese prima di chiedere il trasferimento. Quando mi è stato negato, mi sono dato da fare. Ho smosso un po’ le cose, sentito della gente. La ricina somministrata a don Giulio ha infine sortito effetto: constatato il decesso del parroco per cause naturali, hanno accettato la mia richiesta.

L’ho vista entrare in chiesa una domenica. In prima fila, ha pregato a occhi chiusi, ricevuto l’ostia, si è avvicinata alla statua che ho portato con me. L’ho vista fissarla, poi accarezzarla con la stessa dolcezza di quel giorno.

Per settimane ho ascoltato le confessioni di uomini e donne in crisi: ho assorbito i loro peccati, me ne sono fatto carico, finché stasera, finalmente, l’ho vista entrare e accostarsi al confessionale. Mi ha sussurrato la sua vita. Ho settantaquattro anni, ha detto: sono stata una cattiva moglie, una pessima madre; una donna malvagia, una cristiana orribile.

Le ho chiesto se volesse confessare qualcosa di specifico.

Ha gettato lacrime. Il suo peccato è stata l’invidia. È stata invidiosa di una donna che, ne era certa, voleva rubarle il marito. Ha sobillato l’uomo infame che aveva sposato, convincendolo che il marito della donna volesse insidiarla. L’uomo si è fatto giustizia, e lei da quel giorno ha perso tutto. Ha chiesto perdono.

Allora mi sono diretto alla statua di Maria. Lei mi ha suggerito cosa fare.

Ho aperto lo scomparto che avevo intagliato anni fa, durante il seminario. Ho tirato fuori la 686.

Mi sono avvicinato alla vecchia. Ti perdono, le ho detto.

Ho premuto il grilletto per l’ultima volta.

L’ho vista sgranare gli occhi, poi aprirsi in un sorriso incredulo, mentre rivolgevo il mio sguardo alla statua trafitta dal proiettile, al cuore non più immacolato di Maria.

Un racconto di David Valentini

Illustrazione di Elisa “Invy” Inverardi

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