1966: UFO Club Odyssey

Non sarebbe arrivato a Natale, lo sapevano tutti. Nessun sogno poteva durare tanto, a meno di non precipitare in incubo.

L’avevano aperto a ottobre, al termine di quella strana estate in cui Dylan era venuto a Manchester a prendersi del Giuda per aver imbracciato una chitarra elettrica. Troppo simile a un mitra, lamentarono dentro e fuori il Free Trade Hall, mentre il poeta rinnegava le sue stesse nenie.

Le pietre del futuro cominciarono a rotolare sul presente.

How does it feel, how does it feel? To be without a home, like a complete unknown, like a rolling stone!

Un’estate non esaltante, se volete la mia opinione. Ne sarebbero venute di ben più memorabili, ma nessuno di noi avrebbe più avuto la reattività per godersele. Poi aprirono il club in un seminterrato di Tottenham, e niente fu più lo stesso.

I primi furono i Soft Machine, da Canterbury. Poi il gruppo di Syd, che si esibiva all’All Saints Church di Notting Hill. Così doveva essere una vita per poterla definire tale, non c’erano dubbi su questo.

I bagni si riempivano sempre per primi. La pista era ancora deserta, un antro cavernoso in attesa dei suoi strillanti inquilini, ma i bagni sembravano la stazione di Paddington all’ora di punta: tutti in coda per la comunione dell’acid test. Qualcuno dipinse una saracinesca di mille colori e affisse cartelli per invitare la gente a lasciare fuori la benzedrina e abbracciarsi – o qualcosa del genere. Con le metanfetamine finiva sempre da schifo, la situazione era già abbastanza claudicante per correre l’inutile rischio che dei Mod in completo scozzese si accoltellassero con delle brutte imitazioni in chiodo di pelle di Marlon Brando.

La noia e il grigiore giocano brutti scherzi; così i bambini erano costretti a decapitare parchimetri e a sfondare parabrezza per infondere un minimo di brio a dei pomeriggi dal sapore funereo.

Se si fosse vietato l’ingresso a qualcuno, allora il club avrebbe perso tutto ciò che aveva di speciale. E ciò che aveva di speciale lo si poteva trovare seguendo le scie colorate d’entusiasmo emanate da corpi senza più contorni, inghiottiti dalla calca, decine di figure assorbite da una massa informe; ci si poteva immettere nella coda ininterrotta che dal parcheggio conduceva nell’angolo fradicio del cesso dove stavano i profeti. Dove davano la comunione. “E tu hai passato il test dell’acido?”, chiedevano le ragazze, parafrasando certi scrittori americani. Alla fine, dipinsero la domanda su una parete.

Non stavamo inventando niente, niente sarebbe mai stato inventato lì dentro; sembravamo solo occupare una posizione privilegiata dalla quale intercettare tutte quelle portentose novità che il mondo avrebbe evitato ancora per molti anni.

La lunga e meravigliosa onda di cui parlavano tutti ci aveva preso nel riccio. Non ricordo un solo nome. Come potrei? Ricordo la nebbia. Quella di Camden, opaca, cinerea, e quella dell’UFO, un alone indaco sullo stato delle cose, la tinta azzurrina del fumo che s’avvitava dal tizzone di una sigaretta, una coltre squarciata da mille colori. L’aura che ci proteggeva dalle ingerenze di una vita lontana quanto la peste e dalle guerre dei vecchi. L’ottundimento da cui, con un minimo di impegno e qualche trip acido, potevamo distillare infinite conoscenze.

Non capirci nulla non sembrava un delitto, perché tutto sembrava avere un senso, anche se non era mai due volte lo stesso. Il posto giusto, la giusta porzione di spazio nel più provvidenziale dei momenti. In pochi mesi, migliaia di strafatti riuscirono nell’impresa di dilatare le pareti del Club per inglobare il mondo intero, renderlo un buco nella parete che divideva l’umanità dal suo glorioso avvenire. Replicare gli happening di Wahrol e dare agli Who altre chitarre da spaccare.

Le ragazze soffiavano bolle in cerchi di plastica bagnati in acqua e sapone, si scoprivano i seni e spalancavano le braccia: la nudità aveva finalmente perso il fascino bavoso della novità. Irradiavano il buio di una luce nuova, credendosi piccoli soli. Si farneticava su chi fosse il messia che avrebbe diffuso il verbo di Tim Leary su questa sponda dell’Atlantico.

Syd scivolava nelle conversazioni per smascherare i cialtroni che blateravano di Huxley senza averlo letto. Nei cessi, quell’inverno istituì un’accademia. Insultava chi usava gli acidi e la filosofia per riempire il vuoto dell’abbandono scolastico. Lui era diverso. Brillava anche agli occhi di chi lo detestava e per questo lo detestavano ancora di più; la gente che lo vedeva schizzare fuori dai cessi e sgomitare verso il palco immaginava un marziano che aveva perduto la rotta per casa.

Il suo gruppo divenne famoso senza di lui. Nello spazio infinito e oltre.

Syd raggiunse le stesse altitudini e i cuori della gente, anche se per i motivi sbagliati.

Quando la marea si ritirò ci ritrovammo per strada, immersi in quel grigio così facilmente dimenticato. Ci impiegammo un po’ ad ammettere di non avere destinazione, rigettati semi-digeriti in quelle stesse strade che credevamo volessero ucciderci.

La realtà non aveva più posti per tutti.

Il sogno era finito, il termine di una decade che poteva essersi ridotta a una manciata di secondi. Eravamo entrati all’UFO in ottobre, e quello ci aveva risputati quattro stagioni dopo. Era passato appena un anno. Per quanto ci sforzassimo d’allungare le mani e toccarla, sentirne la forma, cercarne lo scopo, la realtà continuava a sembrare intangibile. E, in effetti, lo era.

Alla fine, non tutti riuscirono a tornare.

Un racconto di Giulia Sguazzini

Illustrazione di Gianmarco De Chiara

Lascia un commento