Senza precauzioni

Mark si lava nel lavandino del ristorante. Mantiene il contatto con la visione periferica della porta d’ingresso che gli sta quasi alle spalle; sarebbe imbarazzante essere sorpreso, ma nonostante le precauzioni gli è già successo un paio di volte. Si scopre il glande, quella è la parte più facile. Preme un po’ del sapone da discount, che profuma di malva dozzinale, cerca di pensare a Sammy di là, che lo aspetta per essere accompagnata a casa. Il lavaggio è molto più accurato se c’è almeno una traccia di erezione, ma in quelle condizioni precarie non è facile arrivarci, neanche immaginandola che gli lecca la punta.

Lo mena un po’ su e giù, non ha tanto tempo, e passa con le dita insaponate alla base dei corpi cavernosi, accorto a non gocciolarsi nelle mutande e nei pantaloni, che mantiene completamente calzati sulle anche.

Potrebbe lavarsi in ufficio, ma spesso è dai clienti, e poi magari nel tragitto il suo pene potrebbe sporcarsi di nuovo e prendere quell’afrore cagliato che lo spaventa perché gli ricorda il suo essere uomo, vivente e – direbbe il suo analista – caduco.

Gli pare che la cena sia stata ottima, buona conversazione e buona intesa; forse non al punto da giustificare la sua profilassi igienica, ma è un rituale ormai.

Una delle sue ultime relazioni lo aveva mollato proprio per quel motivo, a suo dire.

  • Ogni volta che facciamo sesso, — gli aveva detto, — mi sembri Mastro Lindo là sotto, ma sei germofobico, o programmi ogni singola scopata con me?

“Mi ammazza la spontaneità…”. Valle a capire le donne.

  • Forse sto maturando un’ossessione? — pensa. — Da quanto è diventata una prassi? Era il 2018?

No, il 2017, addirittura. Due anni e mezzo prima era uscito con Emily, seguendo la corrente di una catena di conversazioni su Tinder particolarmente promettenti. Erano le prime volte che si avventurava tra le app di dating, era teso e non aveva ancora l’esperienza dei suoi settantacinque appuntamenti, di cui ventotto conclusi con un rapporto e dodici con l’agognata fellatio. Quella sera, come per molti dei suoi speed-date settimanali, era arrivato dal lavoro. La serata era stata inconcludente, lui era imbarazzato, sudava per il caldo, non pensava né a rivederla né a concludere in qualche degno modo l’occasione. Quando lei gli aveva chiesto di accostare al buio perché non si sentiva troppo bene aveva perfino sbuffato, non vedeva l’ora di arrivare a casa. E la mano di lei che gli apriva la zip era giunta del tutto inaspettata, così come anche la sua reazione, no grazie, le ha detto balbettando, ha detto proprio così, ma si può essere più idioti, e l’aveva fermata per la vergogna di doverla imboccare con un membro non perfettamente pulito. Un atto di cortesia, aveva pensato. Perché lui sì, è una persona gentile. Una delle poche rimaste.

Non gli era nemmeno venuto in mente di ricambiare il favore, offrire qualche altra soluzione; aveva con sé un paio di preservativi. Ora non li porta più, è più facile farsi fare un pompino così, appoggiare la mano sulla testa bionda, rossa, corvina, vincere quella leggera resistenza, far capire che è la soluzione più semplice, immediata, sfoderare il suo uccello lievemente sopra la media che profuma di malva, violetta, pino, arancia, latifondi interi e generazioni di agricoltori col cappello di paglia impegnati soltanto a deodorargli il cazzo, e prendilo, troia, e prendilo, succhialo, vedrai che ti piace…

Ultimo passaggio, sciacquare veloce lo scroto e ai suoi lati, scavalcare sotto al pube rasato cercando di spingersi fino alla zona perineale, e qui deve effettivamente tappezzarsi le mutande di carta e abbassare un po’ il cavallo. È il punto più rischioso, se entrasse qualcuno qui si troverebbe davanti le sue natiche, rassodate dalla palestra ma pur sempre nude.

È a questo punto che sente le grida, e gli spari. Per istinto le sue gambe partono al galoppo, dimentiche del fatto che con le brache calate non si può camminare. Incespica, crolla a terra, striscia trascinandosi sui jeans, si rialza in preda al panico, e non sa nemmeno se uscire, visto che nel salone le urla si sono unite ormai in un unico, primordiale, ululato. Attende, con le ginocchia tremanti, e nel giro di pochi secondi – o sono minuti? – i suoni si affievoliscono, diluiti nell’enorme cielo notturno. Gli scoppi sono terminati, qualcuno fugge, si sente già una sirena in lontananza.

Vorrebbe agganciare la cintura e coprirsi, ma le mani non rispondono più.

Aaron spalanca con un calcio la porta, bardato come uno swat. Kevlar e pelle nera, maschera da paintball, cuffie nelle orecchie a filtrargli la colonna sonora adatta, cintura tattica e finto bustino antiproiettile. Il suo AR-15 però è vero. Ha passato gli ultimi cinque anni di adolescenza a combattere l’acne e innaffiare la sua misoginia incel su 8chan e reddit, dedito a qualsiasi peana maschilista gli passasse per la testa, e oggi è il suo battesimo del fuoco. Chi è che sembra un verginello, adesso, eh? La webcam che ha sulla testa ha ripreso tutto, ha ucciso almeno dodici giovani donne, tredici se contiamo quella che ancora sanguina dalla femorale nel salone, doveva portarsi un caricatore in più. Entra nel cesso e davanti a lui c’è un tizio mingherlino seminudo, che trema e sussurra, salivando, non farmi niente ti prego, non ammazzarmi. Aaron impreca, shit-shit-shit. Era andato tutto così bene, sperava di concludere le riprese con una fica schiacciata dentro a un gabinetto che lo supplica in lacrime di risparmiarla, e invece è entrato nel bagno degli uomini per sbaglio; doveva spegnere la GoPro, lo stronzo gli ha rovinato la diretta social con il suo stupido cazzo di fuori.

Un racconto di Ferdinando Mallone

Illustrazione di Gianmarco De Chiara

Lascia un commento