Che te lo dico a fare

La nostra libertà era recidiva, come la nostra giovinezza, come la nostra ingenuità. Vivevo a Torino, avevo da poco superato i venticinque anni e volevo diventare uno scrittore. Farmi sopraffare dalla vita, dicevo. Il mio compagno di casa aveva la stessa aspirazione. Si chiamava Domenico, detto Mimmo, veniva da Potenza e gli piaceva ripetere “Che te lo dico a fare”, sì, proprio come Pacino in Donnie Brasco. Era il suo film preferito. Mimmo scriveva storie noir, ascoltava bebop e si faceva scattare foto con il sigaro in bocca, meglio se un “mezzo Garibaldi”.

Mentre scendevo dal treno a Porta Nuova era scattata la mezzanotte, quindi era il mio compleanno, e dentro c’avevo una di quelle tristezze malinconiche tanto grandi quanto ingiustificate, che solo a vent’anni si possono avere. C’avevo il vuoto dentro. Così lo chiamavo. E appena rientrai in casa trovai Mimmo buttato nel letto, in soggiorno, illuminato dalla luce dell’abat jour. Lui dormiva in soggiorno, io in camera, perché io ero quello che c’aveva la donna che lo veniva a trovare un paio di volte al mese e quindi mi spettava per cortesia una stanza che non fosse di passaggio per andare al cesso dopo aver scopato. Insomma lui era buttato sul letto disfatto in pigiama a quadri leggendo un Izzo o un Helena. Perché i francesi quando scrivono noir sono più tosti, c’hanno il male dentro perché non sono mai diventati straricchi scrivendo.

È il mio compleanno, gli faccio.

Quando? mi chiede.

Adesso, da pochi minuti.

Che te lo dico a fare, mi risponde.

Si mette i jeans e un maglione sopra il pigiama e usciamo. Di domenica non c’è quasi un cazzo da fare a Torino, ma i pub di Corso Vittorio Emanuele II tirano avanti fino alle due, a volte fino alle tre.

Beviamo perché ci piace bere, ci piace l’alcol che si mischia alle nostre parole e alle nostre riflessioni rendendole più interessanti. Ci fa sentire un po’ Beat. Un po’ bohemien. Un po’ meno cazzoni di quello che in realtà siamo. Ci facciamo tre quattro posti, pinte doppio malto per scacciare via gli anni compiuti, che a qualsiasi età comunque pesano, rubiamo senza senso il cartello dei gelati Sammontana dal bar sotto casa, così, solo perché ci piace attaccarcelo in cucina e dare un tocco di colore a quelle mura giallo sporche, come il resto dell’appartamento, come il preservativo extralarge di Marcondez, l’inquilino precedente, trovato nel cassetto di cucina appena entrati, come gli sgombri Premier avariati e putrefatti in frigo che prima o poi dovremo avere il coraggio di buttare. E poi il colore ci fa bene, perché Torino, a San Salvario, è anche una zona dura, dove la gente si schianta la vita, sia che siano immigrati sia che siano torinesi, come il suocero del padrone di casa che una volta Mimmo dette l’affitto a lui e pochi giorni dopo il padrone ci disse di non farlo più perché quell’affitto era finito dritto dritto nelle macchinette del bar.

Che te lo dico a fare.

Insomma rientriamo a casa e siamo leggeri, come le scale fatiscenti del nostro palazzo, come il ballatoio dell’ultimo piano che attraversiamo fino alla fine dove sta il nostro appartamento, dal quale si vede tutto il cortile e tutte le altre case e vite e anime che ci circondano e ci fanno sentire microscopici ma vivi. E forse proprio perché ci sentiamo vivi, decidiamo che abbiamo fame e prepariamo il “mangiarino”, il nostro piatto forte, che non è altro che una english breakfast fatta da italiani incapaci di cucinare ma capacissimi di sporcare. I wurstel sfrigolano sulla griglia, mentre le uova si schiantano sulla padella assieme ai baked beans in scatola e mettiamo su Chet Baker, perché ci va, perché ci piace fare casino alle tre e mezza di notte. Perché lui è bebop e io sono cool ed oggi è il mio compleanno quindi scelgo io. E mangiamo sul ballatoio con la tromba del Baker che esce malinconica e profonda come la notte dalle casse del pc, con i piedi proprio appoggiati sulla ringhiera, mentre il freddo di fine febbraio ci entra nelle ossa e a Torino, a febbraio, fa davvero un freddo fottuto.

E sto pensando che è proprio vero che Baker “è uno che spalanca le porte della tua anima”, lo avevo letto in un libro, quando sbuca fuori il vicino.

Allora siete recidivi, ci dice.

Ha il cappotto alla marinara sopra il pigiama, sembra un Napoleone in pensione. Anche lui scriveva racconti, così aveva detto il primo giorno che lo avevamo conosciuto, era un collega. Ma poi, di racconti, non c’ha più parlato con noi.

Reci cosa? chiedo, ubriaco.

Recidivi, basta con questa musica, siete pazzi a quest’ora!

Io lo guardo.

Recidivo sarà lei, a venire a disturbarci ancora, ribatte Mimmo. E poi non vede che stiamo mangiando?

Io restai muto a guardare le sue vecchie labbra muoversi, non sapevo cosa dicesse. In quel momento solo pensavo che recidiva era la nostra poesia, il nostro modo di essere e di tutti quelli che si erano schiantati in questo cazzo freddo mondo prima di noi, con noi e dopo di noi. Però, prima di diventare come lui, vecchi Napoleoni con i sogni dimenticati nelle tasche del pigiama, recidiva era la nostra resistenza, pensavo. Però, per la prima volta, provai quella paura così profonda. Quella paura che ti fa capire che una volta che il tempo passa, non puoi più essere recidivo. Ma solo ripetitivo.

Oppure morire. Lentamente o in fretta non ha nessuna importanza.

Che te lo dico a fare, pensai.

Che te lo dico a fare, gli dissi.

Un racconto di Adriano Giotti

Illustrazione di Giulia Canetto

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