Di che colore sono i miei occhi

Quando la testa dell’infermiera fa capolino dalla stanza numero tre, uno sbalzo di tensione oscura per qualche secondo la sala d’aspetto.

La donna, un armadio con la divisa verde e i capelli biondo cenere raccolti in una crocchia stretta, chiama il nome del paziente a vuoto, una volta, due volte, sollevando la voce di un semitono fra un tentativo e l’altro. Al terzo avviso sta quasi strillando.

Una donna gobba e rimpicciolita dal tempo si alza e prende a muoversi con fatica, la sua badante kazaka la segue tenendo stretta una busta colma di referti e impegnative.

Il bambino fa ciondolare le gambe e fissa il pavimento, tiene strette le mani alla sedia come se ai suoi piedi non ci fosse la moquette macchiata del vecchio ambulatorio ma un burrone. L’orologio sulla parete ignora che l’ora legale è ormai giunta da una settimana, il telefono squilla senza sosta e dalla finestra lasciata aperta sul corridoio filtrano pochi raggi incerti del sole di fine ottobre.

Lui e il vecchio si incontrano ogni mercoledì nella sala d’aspetto, Visite di controllo – accettazione obbligatoria entro le ore 16.15. Quando arriva il momento entrano ciascuno nella propria stanza e si chiudono la porta alle spalle, il vecchio gli sorride prima di scomparire dietro al vetro satinato della stanza numero tre. Alcune volte si ritrovano giù per le scale dopo che hanno finito e si salutano ancora, il vecchio regge il portone pesante di legno finché il bambino non esce dal palazzo. Una giovane donna, magra da sembrare un appendiabiti, lo aspetta sempre là fuori con la sigaretta nella mano e l’infelicità negli occhi.

– Tu perché vieni qui? – gli aveva chiesto il bambino un pomeriggio, qualche tempo dopo aver iniziato a frequentare l’ambulatorio. Il vecchio aveva distolto lo sguardo dal giornale e aveva piegato la testa in avanti in modo da poterlo guardare oltre le lenti degli occhiali da lettura. Il bambino gli era parso più pallido del solito, i suoi occhi vivaci sembravano un punto di domanda su un foglio bianco. Erano soli nella sala d’aspetto, il telefono squillava a vuoto e dalle porte degli ambulatori nell’andito giungevano frammenti sparsi di voci ovattate.

– Io vengo qui perché sono vecchio, e i vecchi hanno qualche seccatura delle volte. E tu invece che ci fai qui?

– Io vengo qui perché sono recidivo, – aveva risposto il bambino fissando i lacci delle sue scarpe.

– Recidivo? – chiese l’uomo, il giornale stretto tra le sue mani sembrava carta pesta.

– Sì, me l’ha detto mia madre e mi ha detto anche che devo continuare a venire qui fino a che non guarisco, poi quando smetto posso non venirci più.

– Capisco, – disse il vecchio volgendo lo sguardo al pannello con le indicazioni degli studi medici e le rispettive specializzazioni. Tornò a guardare il bambino. – E se posso chiederti, in cosa saresti recidivo?

– Io non lo so nemmeno cosa vuol dire recidivo, ma credo che c’entri qualcosa con… – il bambino abbassò la voce e si sporse verso l’uomo, – credo che sia per via della pipì.

– La pipì?

– Sì, ogni notte sai… a letto, ma anche a scuola, a catechismo, – disse.

– Capisco, capisco. E comunque essere recidivo vuol dire solo ricadere, sai tipo inciampare nello stesso punto? Ecco non è poi così grave su. Anzi sai che ti dico, pure io vengo qui ogni settimana perché sono recidivo, – disse l’uomo.

– Pure tu la fai a letto?

– Molto peggio! E se non usassi il panno bagnerei il letto tutte le notti pure io.

– Il panno? – esclamò il bambino. – Ma mica sei un neonato, nemmeno io lo uso più.

– I vecchi sono come i neonati sai? A volte hanno bisogno del pannolino, di qualcuno che li accudisca quando si lavano, mentre dormono. Vecchi e bambini sono assai più simili di quanto non si creda, – disse. – Di che colore sono i miei occhi?

Il bambino si sporse in avanti per guardare.

– Grigi un po’ azzurri.

– Hai ragione, eppure io li ho avuti castani per tutta la vita. Sai chi altro ha gli occhi grigi un po’ azzurri?

Il bambino fece segno di no col capo.

– I neonati li hanno così, dello stesso colore del mare. E noi vecchi ce lo riprendiamo a poco a poco, dagli occhi, il mare che ci ha portato nel mondo. Lo guardiamo da lontano per un po’, prima di farci ritorno.

Il bambino tacque, dall’andito giunse il cigolio di una porta che si apriva, qualcuno si stava salutando.

– Se guarisco, mamma dice che smette di piangere.

– Vedrai che si sistemerà tutto, non devi avere paura di niente.

– Tu hai paura?

– Delle volte, ma poi mi ricordo che la paura non serve a nulla, così smetto di ascoltarla e lei si stufa e se ne va via.

Il dottore comparve nella stanza, indossava un camice bianco e occhiali da vista così spessi che da lontano pareva un monaco cinese. Chiamò il bambino e lo prese per mano.

Poco dopo fu il turno dell’uomo, la voce dell’infermiera lo richiamò dai suoi pensieri. Prima di entrare nella sala della terapia fece qualche passo nel corridoio e lanciò un’occhiata verso l’ultima stanza a sinistra, la numero cinque, Neuropsichiatra Infantile – bussare prima di entrare. La porta era accostata, il bambino era seduto su una seggiola di plastica azzurra, aveva le braccia incrociate sulla pancia come uno scudo e sorrideva, con la bocca e con gli occhi.

Al vecchio per un attimo sembrò di vedere il mare.

Un racconto di Bernadette Dessalvi

Illustrazione di Giulia Canetto

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