Sono entrata in casa, avevo comprato l’arrosto.
Io non ho mai fatto l’arrosto. Mia nonna dice sempre che non è facile e che bisogna rispettare alcune regole precise. La più importante è ricordarsi di rosolare il pezzo di carne a fiamma altissima prima di infornarlo. Sono una studentessa e non ho molti soldi, però questa settimana mi sono avanzati dieci euro. Siccome a me piace molto l’arrosto che fa mia nonna, allora ho deciso: proverò a farlo.
In casa c’è Velia, che abita con me. È seduta al tavolo della cucina, ha davanti a sé un piatto con l’insalata e del formaggio molle, tipo stracchino. Però non mangia. È stranamente rigida davanti al piatto.
Io le chiedo – Come stai? Come va? – e non mi risponde.
Lì, in cucina, preparo l’arrosto, come m’aveva detto nonna: lo lego, lo appoggio sulla teglia, è morbido, lo nascondo con foglie d’alloro e pepe. Ho molta fame, lo metto subito nel forno. Ho le mani umide di sangue e profumate dalle spezie. Chiedo a Velia se più tardi vorrà un po’ d’arrosto e lei non mi risponde: è davanti al piatto, non dice nulla, muove la forchetta senza mangiare. Poi si alza, attraversa il corridoio che separa la cucina dalle altre stanze e va nella sua camera. Torna, prende il suo piatto e la forchetta e li mette nella lavastoviglie. Si siede al tavolo, ferma, senza dire niente. Io le chiedo se c’è qualcosa che non va ma lei non risponde.
Si alza e tira fuori il piatto dalla lavastoviglie: lo ripone nella credenza.
Io le dico – Cosa stai facendo? Guarda che non è pulito. – Ma lei continua a sistemare le stoviglie.
Il mio telefono squilla, lei mi guarda con le pupille dilatatissime e dice – Non rispondere!
– È mia mamma.
– Non rispondere. Non rispondere. Non rispondere. – ripete.
Così non rispondo anche se il telefono continua a squillare.
Lei mi supera, attraversa la cucina e il corridoio, va in camera sua e inizia a spostare tutti i mobili, li spinge, li ammassa vicino alla porta; stacca i quadri, li trascina in corridoio; poi la lampada, la scrivania, il letto.
Io sono nella stanza con lei, siamo vicine, sento il suo respiro caldo su di me. Non so cosa fare.
– Non rispondere, non rispondere, non rispondere – dice – altrimenti entrerà in casa, entrerà in questa casa.
Non è mai stata così. Il telefono continua a squillare.
Lei me lo prende dalle mani. Lo scaraventa per terra, si spacca. Corre di nuovo in cucina. Sento battere i piedi sul marmo. Le vibrazioni del muro. La parete rimbomba.
La trovo lì, accucciata sul pavimento. Sta sanguinando, la ferita è sotto i capelli ma non vedo dov’è.
Non ho idea di cosa devo fare. Mi viene in mente solo di prendere il suo telefono. Lo faccio.
Sento bussare incessantemente alla porta d’ingresso, all’inizio del corridoio. Vado ad aprirla: è un suo amico. Velia, appena lo vede, urla. – Vai via, vattene. – Chiudo la porta della cucina ma lei lo fissa dall’altra parte del vetro.
La sua gamba spinge sul vetro della porta. I pezzi di vetro saltano nel corridoio e lei con loro.
L’amico la abbraccia, lei inizia a dimenarsi: le gambe scalciano nel vuoto, la testa gira velocemente da una parte all’altra. Lui la stringe con più forza.
Ho il telefono in mano e chiamo aiuto nel corridoio.
Lei mi vede.
Con tutta la forza che le è rimasta si libera. Mi prende dalle mani il telefono, è ricoperta di sangue. Corre in camera, l’amico la segue.
Scappo da casa.
Fuori, per strada, fatico a trovare aiuto: nessuno vuole ascoltarmi.
In quel periodo parlavamo molto: una sua amica era morta di recente, era stata in casa con noi fino a qualche mese prima, poi era morto anche suo nonno, mi sembra. Velia non sopportava quel suo amico, diceva che si comportava male, eppure lui veniva spesso a trovarla. C’era anche un ragazzo che la chiamava durante la notte, sempre più spesso, tanto che non riusciva più a dormire. Pensavo fosse innamorato ma lei diceva che l’aveva prima illusa e poi allontanata improvvisamente. Non capivo se questa fosse la verità: mi raccontava queste cose in modo confuso.
Vivevamo insieme e avevamo un rapporto di simbiosi, in un certo senso. Comunque durante la giornata io andavo all’università e lei stava sempre a casa, si svegliava quando tornavo. La sera a volte usciva ma io non andavo con lei. Non sapevo dove sparisse.
Le luci. Le era successo una notte, mentre passeggiava lungo il fiume. Si erano improvvisamente spente tutte le luci, poi si erano riaccese. E lei mi aveva chiesto perché era successa questa cosa. Io non lo sapevo.
Quelli dell’ambulanza non riuscivano a prendere Velia, perché si dimenava. Mi ricordo che alcuni avevano paura, perché era proprio agitata. Diceva solo – Aiutatemi… Non sono pazza, non sono pazza.
Alla fine ci sono volute cinque persone.
Io sono rimasta a casa sola e dal forno proveniva la puzza dell’arrosto che cominciava a bruciare. Nessuno prima se n’era accorto.
Un racconto di Francesca Riccardi
Illustrazione di Nora