Mi s’era fermata l’ape ed ero in mezzo alla via, racconta Alvaro Mazzi detto Braccio di Ferro, bestemmiavo il dio, la madonna e anche il bue e l’asinello, e a un tratto mi si fermò accanto un ragazzo, io lo guardai, lui mi guardò e mi fece: Te la traino io. Va bene, grazie, gli risposi, prendi la macchina e aggancia l’ape. Ma questo era a piedi, l’automobile non l’aveva, sicché io pensavo mi pigliasse per il culo. Stia tranquillo, mi disse poi, non c’è bisogno della macchina. Infatti chiappò una fune e una catena, che per l’appunto le avevo lì dietro, se le legò in vita e le agganciò al muso dell’ape. Questo è grullo, pensai, e invece mi toccò inseguirlo per quattro chilometri e passa, arrivò fino al garage di casa mia senza durar fatica. Un rimorchiatore di ciccia, maremma diavola.
Questa cosa dell’ape, in paese, nel giro di qualche ora la seppero tutti, e da lì venne fuori il soprannome Cavallo, sostiene Lele Sonetti, allenatore del Radda in Chianti e non imparentato col più celebre collega Nedo. Insomma, continua Lele, c’è chi dice fosse per via del film con Richard Harris, e c’è chi la racconta differente, cioè che fu Braccio di Ferro a dirgli: Dio cristo, sei un cavallo. Così gli rimase appiccicato a vita. Forse solo il su’ babbo e la su’ mamma sapevano il suo vero nome, perché per tutti lui era Cavallo e basta, anche se una cosa come trainare un’ape la fece, penso, solo quella volta. Un giorno tra l’altro lo trovai al bar, gli dissi che mi serviva un terzino sinistro per la squadra, e lui mi rispose che veniva ad allenarsi il giorno dopo. Ci venne, eh, ma solo per fare i giri di campo. Ne fece più d’un centinaio, poi non si ripresentò più. Peccato, sulla fascia avrebbe reso bene.
Bastava fare una girata in paese e prima o dopo ti sbucava fuori da qualche parte; quello lì camminava e basta, dice Samuele Cacciatori, figlio dell’avvocato Ugo Cacciatori. Io, per dire, non l’avevo mai visto guidare una macchina, ma nemmeno a sedere al posto del passeggero. Figurati, mai visto neanche su un motorino o su una bicicletta. Io e questi altri ragazzi non si sapeva bene che lavoro facesse, ma per un periodo, così mi dissero, aveva scaricato i camion al mercato. Si svegliava presto, andava a spostare le casse della frutta e della verdura, e dopo si rimetteva in moto, nel senso che ripartiva a piedi, a casa non ci tornava mica. Gli mancava qualche venerdì, a quel ragazzo.
Bisognerebbe fare tutti più o meno diecimila passi al giorno, raccomanda Eufemio Pancaldi, professore di Educazione fisica all’Istituto comprensivo Pontormo, e sicché si dovrebbe prendere esempio da Cavallo, che alle dieci di mattina forse ne aveva già fatti dodicimila. Una mattina partii in macchina verso le sette per andare al lavoro e lo vidi camminare sul ciglio della strada: roba da matti, manca poco che lo tiro sotto. Un’altra volta, invece, saranno state le sette di sera, ero sempre in macchina, lo beccai che era sul marciapiede, pioveva come Iddio la mandava e lui era senza ombrello. Gli importava una sega dell’acqua, a lui, e alla fine neanche a me, visto che un’altra volta ancora lo trovai sugli argini, sempre sotto un acquazzone: io facevo una corsa pomeridiana con indosso un k-way, lui era a passeggio come sempre, bagnato da capo a piedi, con i jeans e la polo. Ora è un pezzetto che non lo rivedo, chissà che combina il mitico Cavallo.
Senti, io l’ultima volta che l’ho visto sarà stato tre o quattro mesi fa, dice Sabrina Lo Bianco, impiegata al Punto Snai di via Arno. Di solito passava di qua diverse volte al giorno; lo vedevi la prima volta la mattina alle nove, ripassava verso mezzogiorno e poi alle quattro, qualche volta pure alle sette. Ma non penso abbia mai speso una lira: no, non scommetteva mai. Entrava, faceva due chiacchiere, di solito parlava del tempo, al massimo due battute sul calcio, salutava tutti e andava via spedito, sembrava ci avesse sempre il pepe al culo. Eppure non credo avesse famiglia o grosse cose da fare, anzi. Non era neppure un brutto ragazzo, comunque non uno da prendere moglie. No, mi sa di no.
Cavallo?, un mito!, così lo ricorda Tommaso Mealli, imbianchino, all’occorrenza idraulico e falegname. Abbiamo fatto le elementari insieme, però in classi diverse, lui nella A e io nella B. Durante l’intervallo camminava da solo per i corridoi, e quando si usciva a giocare in giardino faceva uguale. Ha sempre parlato poco, Francesco. No, aspetta, forse si chiamava Valerio? Chi se lo ricorda. Ah… qualche mese fa io, il Balena, il Fiaschi e altra gente s’andò a fare una grigliata in Pratomagno perché giù in paese si schiantava di caldo. Si restò fino a sera, senza sole si stava ancora meglio, e allora si accese il fuoco: non si poteva, se ci beccavano erano cazzi, ma tanto non passava mai nessuno, nessuno all’infuori di Cavallo. A un certo punto ce lo ritrovammo davanti. Cavallo, che ci fai a giro a quest’ora da queste parti?, gli domandai. Nulla, un giro, rispose, così… tanto per cambiare. Ecco, da quella volta io non l’ho più rivisto, e a quanto pare non sono l’unico, perché un giorno mi capitò di vedere la sua faccia su Raitre, in quella trasmissione sulla gente scomparsa. Solo Braccio di Ferro dice d’averlo visto un paio di sere fa passeggiare per quella strada dove di solito ci sono le puttane, ma lui non è attendibile, chi vuoi che gli creda. Racconta troppe cazzate, quello.
Un racconto di Marco Renzi
Illustrazione di Alessandra Luciani