Vatra u Vatri

La donna di fuoco aveva un cappello, un amuleto in foglia d’oro e una bussola di quarzo. Ogni tanto la scuoteva e sussurrava il nome di una via che non esisteva. Aspettava.

La carovana pendeva lieve e le monete d’ottone appese alla porta sgranavano leggere la notte di piombo. Aveva imparato a non fidarsi mai di Sadachbia, diceva, la stella delle cose nascoste. Mentiva.

Giurava spesso su dio ma non ci credeva. “Non sta nelle croci”, cantava: “Non sta nella terra.”

Non lo dissi mai a nessuno, sotto le luci del tendone, mentre saltavo nel vuoto affidandomi al cerchio infuocato. Non lo dissi nemmeno a me stessa. Non sta nelle croci. Non sta nella terra.

Dicono che un giorno morì cantando. Dicono che io non fossi lì, ma io giuro su dio che c’ero. La donna di fuoco fu soltanto uno spettro, fu la fine del sogno. Fu un carillon rotto, una biglia di vetro. E prima che il mondo finisse, la donna di fuoco fu mia madre.

Quando ero bambina, intrecciava i miei capelli con fiori di campo e mi bagnava la fronte con acqua di rose, per allontanare gli spiriti della notte. Cantava la canzone di Thiago e Miroan, due rom che non si poterono amare e che, per questo, un qualche dio trasformò in onda e brezza di mare. Cantava dei fiori che sbocciano soltanto a mezzanotte, del frutto della luna bianca e arida che ai vivi è vietato cogliere. Mi insegnò la nostra lingua di miele e di sangue e una volta mi disse: “Non credere agli altri, tu sei una viandante.”

Non ci fermavamo mai. Cercavamo nelle città e nel volto delle piazze le nostre città e i nostri volti, ma non li trovavamo. La donna di fuoco smetteva di cantare. Diceva che al mondo non c’è perdono per i rom. Non c’è casa. Non c’è né brezza né onda di mare.

Mio padre era un mendicante re, vestiva di stracci e, quando parlava, splendeva come oro. Ogni notte mi arrampicavo sul tetto della carovana e da lì guardavo le stelle scivolarmi dietro le pupille. A tutte davo un nome e sapevo che non era quello che avevano nei libri. Non mi importava. Allora il mendicante-re apriva il suo libro immaginario e leggeva il mondo. L’alfabeto non lo capiva e nemmeno le poesie degli altri, dei letterati, ma il mondo sì, del mondo sapeva ogni cosa. Io rimanevo ferma ad ascoltare, con i piedi nel vuoto e le mani ben salde alla finestra sul tettuccio. Raccontava delle conchiglie rosse e dei mari in tempesta giù in Andalusia, delle case bianche e delle rive scure del Montenegro, tremava sempre ricordando la steppa di neve lasciata alla Russia e si fermava un secondo quando la mente tornava ai monti e al caffè di lino della Croazia. Mi disse che un giorno, quando sarebbe stato il momento non avrei dovuto cercarlo nel fango, ma negli occhi del vento. Sarebbe rimasto in ogni luogo che aveva abbandonato, in ogni angolo di vita che aveva visto passare viaggiando, in ogni ricordo. Poi la guerra lo spinse su un treno diretto in Polonia e mia madre sotterrò un amuleto di stagno sotto una spiga di grano, giurando vendetta. Il circo di mio padre rimase alla neve e noi ci disperdemmo, chicchi di vento tra le mani della sorte.

Dopo la guerra mia madre sognò una lingua di fuoco e un canto lontano. Il giorno dopo trovò un pagliaccio triste e un’equilibrista cieca, ammaliò un serpente e due leoni, mi insegnò a volare. Ricucì il tendone, appese un sonaglio alla carovana. Divenne la donna di fuoco.

Ogni sera, legava un fazzoletto al polso, bagnava i denti di benzina e poi pregava un qualche dio nascosto. Nessun perdono, nessuna parola per i fantasmi alle sue spalle, per i volti che vedeva quando giravo l’asso di cuori e lo conficcava a terra, prima dello spettacolo. Aveva cicatrici e bruciature sulle mani e sulla gola, ma il suo numero speciale era fuggire, era il gioco del viandante, un’insenatura di fuoco sul solco delle labbra. Non ci voltavamo mai indietro.

Mia madre baciava le stelle. Una a una e poi le sputava. Scrollava i ricordi dalle spalle e li bruciava di nuovo, nel fuoco sulla lanterna che la sera avrebbe divorato.

“Ti fermerai un giorno?” “Neanche morta.” E ripartiva, il piede piccolo sul primo gradino della carovana e il cielo di Vilusi nel cuore. Girammo mille città e milioni di notti. Un giorno mia madre sentì il vento dell’ovest squarciarle la pelle. Salutò i circensi, regalò loro una biglia dalla quale, a detta sua, si vedeva il futuro. Ci guardarono dentro, vecchi e bambini e videro soltanto specchio e vetro. La salutai con la punta delle dita e presi a leggere le mani, città dopo città seduta tra il pagliaccio triste e l’equilibrista cieca.

Morì cantando, con i capelli al vento, lasciò una lettera a nessuno, ci scrisse:”Vatra u vatri, fuoco nel fuoco, ricorda chi sei”

Fuoco nel fuoco, ricorda chi sei.

La trovai negli occhi del vento, con le ossa di benzina e i piedi scalzi, con le parole di mio padre attorno al collo e un amuleto di stagno da buttare.

Un racconto di Morena Pedriali

Illustrazione di Marco Pellino

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