Sotto il tavolo

Sono Vittorio e devo portare mia nonna a fare cose.

Ha ottant’anni e una medaglietta con incisa la foto del nonno appesa al collo.

Alle sei del mattino entra in stanza. Tira su la tapparella, spalanca la finestra, si lecca le dita e me le passa intorno agli occhi.

Da piccolo mi inseguiva dalla stalla fin dentro casa col rastrello in mano e un foulard in testa. Io mi nascondevo sotto il tavolo della cucina. Era la mia base. C’era tutto: sala macchine, stanza d’onore, deposito delle armi, briciole. Entrava, guardava nel forno, apriva la credenza, faceva il giro del locale ringhiando, poi si inginocchiava e di scatto mi prendeva per una caviglia facendomi strisciare sul pavimento. Scalciando mi liberavo, e da lontano le sparavo in faccia col dito.

Dopo essermi lavato e vestito, preparo la colazione. Poca roba.

Finito di mangiare lavo piatti, tazze e posate, do un’occhiata sopra il tavolo e pure sotto, vado in garage e tiro fuori la macchina.

Sono in riserva. Nonna mi dà venti euro. Metto in marcia e prendo la salita che porta al centro del paese. Noi viviamo in basso, vicino al fiume e ai campi morti.

In fondo alla strada c’è un incrocio. Inchiodo. Arrivano macchine da destra e tizi a piedi da sinistra. Suono il clacson, nonna fa le corna, sto in marcia, lascio la frizione e tiro dritto fino alla piazza. Parcheggio di fronte al bar e, a braccetto, entriamo in chiesa.

Il prete apre e chiude le braccia come volesse avvinghiare il mondo o volare; somiglia a un falco sopra un ramo e parla, parla, parla, mentre io immagino gli angeli dipinti e i santi venir giù dal soffitto e dai quadri per tenermi sveglio.

Alle otto andiamo al bar in gruppo. Ci sediamo ai tavolini. Siamo io, nonna e le sue amiche. Alcune mi toccano le spalle e fanno battute, altre ancora mi fanno i complimenti per i capelli non ancora sbiaditi e i lineamenti marcati del viso che somigliano a quelli dei loro mariti scomparsi. Bevo un macchiato caldo, ringrazio per le parole, stringo la mano a tutte coi nervi in gola e accompagno nonna alla cassa per farle pagare il conto aggrappata alla mia felpa.

Costeggiamo a piedi una serie di ville e villette a due piani, la banca e oltrepassata la biblioteca entriamo al supermercato.

A passo svelto vado al reparto macelleria, mi metto in fila e, arrivato il mio turno, chiedo gentilmente, ma senza sorridere, del pollo tagliato a fette da cucinare in padella con vino bianco e funghi Marco Aurelio. Nonna mi raggiunge a fatica e, stretta al mio braccio, lascia cadere sul pavimento la cesta con la verdura. Il macellaio le dà il buongiorno, lei non risponde, io gli dico di muoversi che abbiamo fretta, lui ci rimane male e mi consegna la carne male impacchettata.

All’una, dopo aver salutato con baci sul marmo il nonno al cimitero, ritirato i soldi in posta e preso le medicine per il cuore in farmacia, salgo in macchina e dico a nonna che la porto a casa. Vuole stare con me, scrolla la testa in continuazione e batte i piedi sul tappetino; io trattengo il nervoso, annuisco, metto in moto e parto.

In sala d’attesa c’è gente. Chiedo a lei se vuole dell’acqua. Non risponde. Si guarda intorno con le mani incrociate sulla borsa. Le frugo nelle tasche, trovo della moneta e mi avvicino alle macchinette. Vengo interrotto da una voce di donna che fa il mio nome. La seguo nello stanzino.

«Tutto bene?» chiede lei.

«Resisto!» dico io strappandole dalle mani il contenitore di plastica. Vado in bagno, svito il tappo, mi metto davanti al cesso, tiro giù i pantaloni e ci svuoto dentro la vescica. Non spreco nemmeno una goccia. Torno nello stanzino, le consegno il barattolo e mi siedo.

Dice che mi trova bene e di tenere alta la guardia. Io non dico nulla, sorrido, sorrido e basta guardandomi attorno: provette, contenitori sterili e pile di cartelle cliniche con nomi e cognomi. Lei si alza e, dopo avermi stretto la mano e accarezzato una spalla, mi accompagna alla porta ripetendo ancora una volta che mi trova bene e di tenere duro.

Nonna sta ancora seduta. Guarda per terra. Mi avvicino, le chiedo se sta bene, alza lo sguardo e punta il dito verso l’uscita.

Per tornare a casa prendo la strada che passa vicino al fiume, supero i Mulini Bassi, salgo per i campi morti, imbocco la via di casa e parcheggio vicino alla stalla. Vado in cucina, lascio la spesa sul tavolo e metto a scaldare una pentola con acqua e bicarbonato. Poi la svuoto nel catino e, con le budella agitate, ci affogo i piedi varicosi di nonna che si toglie la dentiera, la avvolge in un fazzoletto di stoffa a quadretti rossi e me la dà in mano. Verso in una ciotola altra acqua e bicarbonato e ce la immergo dentro.

Copro il tavolo con la tovaglia blu a stelline bianche e apparecchio guardando in continuazione il bicarbonato che splende sopra ogni cosa. Tiro fuori dalla credenza una padella, il cartone di vino bianco dal frigo, un cucchiaio dal cassetto e, prima di mettere il pollo a cuocere, vado in bagno col telefono in mano e un punteruolo in testa. Non resisto. Sulla tazza chiamo il tipo una, due, tre, quattro volte. Alla quinta lo trovo. Riaggancio, mi sistemo intonando una canzone con parole inventate, torno in cucina, prendo i soldi dalla borsa di nonna ormai addormentata e lo raggiungo al vecchio posto: tra il fiume e i Mulini Bassi.

Alle sette di sera rientro e mi rimetto al lavoro in cucina. «Finisci sempre quello che inizi, e non rimandare mai a domani quello che puoi fare oggi» mi diceva nonna quand’ero piccolo. Poi spariva nei campi o in stalla e io tornavo a creare paesaggi, cose e persone sotto il tavolo.

Riempio il bicchiere di vino e lo bevo alla goccia. Faccio tre respiri profondi, mi libero delle scarpe. Nonna russa. Sposto la pentola, infilo il pollo e i funghi nel frigo, lascio la verdura in un angolo e accendo il fornello. Scarto la busta e ce la svuoto tutta nel cucchiaio con acqua e bicarbonato splendente. Sopra la fiamma mescolo il preparato e, una volta cotto, lo verso sul tovagliolo di carta vicino al piatto. Mi siedo, trasformo in pipa la bottiglia, metto sul braciere un po’ di roba e inizio a fumare parlandomi addosso. La finisco in poco tempo. Nonna si sveglia, non russa più. Mi guarda con gli occhi semiaperti e lucidi; io lascio cadere bottiglia e accendino per terra, mi nascondo sotto il tavolo e col dito le sparo in faccia.   

Un racconto di Andrea Pauletto

Illustrazione di TeppaElle

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