Crisalidi

Da quando si erano conosciuti, Leo non la smetteva mai di toccarle i capelli. Vera aveva lunghi capelli di seta, e quando era giovane avevano il colore che rimane nel mortaio dopo aver pestato la curcuma. Ora alcuni fili erano ingrigiti, e Leo le diceva che nella lavorazione del vetro questa si chiama avventurescenza e lo rende ancora più pregiato. Afferrava una ciocca e la faceva scorrere sul palmo di una mano come si fa coi tessuti preziosi, avvicinandoci il viso, e adesso Vera voleva che lui al suo ritorno li trovasse perfettamente sbrogliati, così avrebbe potuto immergervi le dita e il volto come prima e magari sarebbe rimasto.

Seduta sul bordo del letto, posò la spazzola per bere un sorso d’acqua dalla brocca che aveva riempito in caso le fosse venuta sete. Si strinse meglio nella vestaglia e lanciò un’occhiata verso la finestra spalancata da cui entrava l’aria fredda di fine ottobre, e vide molte cose (vide l’acqua scura della notte e i riflessi dei lampioni trattenuti dalla sua superficie tremula, le case dall’altra parte del canale, tre gabbiani e il cielo senza stelle), ma di Leo neppure l’ombra. Vide anche il comignolo della fornace del vetro, e fu attraversata da una scarica blu di indignazione.

Erano venuti a portarle delle rose, dopo la cerimonia (il giorno prima, o una settimana prima – non ricordava). Avevano detto che Leo era stato il migliore fra tutti i soffiatori del vetro, che avrebbero esposto i suoi pezzi migliori lì alla fornace, che potevano darle dei soldi. Vera era rimasta ad ascoltarli, incredula, e quando se ne erano andati si era rinchiusa nella casa, a pettinarsi, e non ne era uscita più. Mentre usava la spazzola con gesti misurati delle dita bianche aveva percepito che i candelabri e le lampade, i bicchieri dietro lo sportello della credenza e lo stesso sportello della credenza, ogni singolo oggetto in vetro soffiato dal marito, che aveva contribuito a rovinargli i polmoni, allo stesso tempo conteneva il fiato di lui.

Anche in quel momento, sola al centro della stanza, lo sentiva respirare nella collana di perle trasparenti che portava al collo, nella caraffa ai suoi piedi, in tutti quei variopinti e delicati assassini. Portò una mano alla gola, la strinse attorno alle perle di vetro, e lo chiamò.

Il rumore del cordino che le si spezzava all’altezza della nuca fu subito sovrastato dal tintinnio duro e limpido delle perle che si infilarono sotto i mobili, rotolarono contro i battiscopa, e la faccia le si fece pesante quasi volesse scivolarle giù dal cranio quando vide una delle sfere infrangersi in centinaia di schegge e, un istante dopo, l’ombra era al suo fianco.

Non riuscì a distinguerne i tratti, ma sapeva che era lui, e sua era la voce che chiese I tuoi capelli, che hai fatto ai tuoi bellissimi capelli?

Vera portò una mano alla sommità del capo – quasi glabra. Abbassò gli occhi e vide i suoi capelli, meravigliosi capelli di seta, sul pavimento alla veneziana.

È insopportabile. Quanto a lungo ti sei spazzolata?

Vera non lo sapeva, e non rispose.

L’ombra le porse una mano.

Vera si alzò, fece un passo verso di lui, un altro, e la prese nella sua. La strinse.

“Rimani qui”, gli disse, la voce che le raschiava la gola, “resta in casa”.

Stretta alla sua mano, l’ombra la guidò verso la porta.

Vera non aveva intenzione di lasciarlo andare, non di nuovo – e per la prima volta da quando Leo era morto si ritrovò fuori dalla casa.

La patina di polvere di vetro che ricopriva l’isola era tanto sottile da risultare invisibile. Te ne accorgevi solo quando ti si insinuava nei polmoni, o quando tirava vento, come quella sera, e sentivi i frammenti trasparenti colpirti le guance con gelide punte di spillo.

Un racconto di Fosca Salmaso

Illustrazione di 2-Rxst

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