Dire fare baciare lettera testamento

Ho parlato con te, stanotte. Ti ho detto tutto e tu sei rimasta in silenzio ad ascoltarmi. Quando il gallo ha cantato non c’eri già più, dissolta come solo le allucinazioni sanno fare. Mio padre dormiva nell’altra stanza, il suo profondo russare attraversava i muri e si infilava sotto le porte. Lui non soffre d’insonnia, non ha pesi. Si è svegliato verso le nove. “Incredibile” mi dice, “da quando sono vecchio dormo meglio”. Gli preparo la colazione, mangia, si fa la doccia ed esce. Va al parco assieme agli altri pensionati, con un giornale sotto braccio che non avrà tempo di leggere. Ha molte cose da dire a chi lo vuole ascoltare, ha smesso di parlare con me perché non ha più nulla da dire che io già non conosca. Io resto a casa a parlare con i muri. Dico tutto anche a loro, come faccio con te, li informo di ciò che è stato e di ciò che sarà. Quando rispondono so che ho detto a sufficienza. Sono solidi, mi posso fidare. Mi hanno detto che il paradiso potrebbe bruciare i miei occhi.

Ho chiamato in ufficio, ho detto al mio capo che non sarei andato, che non stavo bene, e lui non ha avuto niente da ridire. Non ho mai perso un giorno di lavoro eppure non sono indispensabile. Mi ha augurato una pronta guarigione. Ho risposto che lo speravo proprio, ma in realtà ne ero sicuro, sarei guarito in fretta.

Allo psichiatra lo avevo già detto, gli avevo detto “è finita, sono guarito” e lui aveva accennato un sorriso. Lo stesso sorriso che ha l’uomo allo specchio mentre gli dico che è sempre stata tutta colpa mia, che non potevo sfuggire da questa verità e che nemmeno lo psichiatra mi avrebbe fatto cambiare idea. “Ci vediamo la prossima settimana” ha detto lui.

Ho dato da mangiare a Gera, lei ha miagolato qualcosa che sembrava un invito ad andarmene. Mi sono infilato le scarpe e sono uscito di casa. Ci sono tante cosa da fare. Annaffiare le piante prima che il sole le secchi, tagliare l’erba, fare la spesa, fare in modo che questa casa, progettata cinquant’anni fa con in mente un’idea di futuro che non esiste più, possa continuare a esistere anche domani, e il giorno dopo, e quello dopo ancora. Attraverso la strada, entro nel giardino della casa di fronte. È disabitata da anni. All’inizio vedevo persone accompagnate a visionare l’immobile. L’agente mostrava la casa decantandone i pregi e mascherandone i difetti. L’ho fatto anche io, con te, ricordi? Ti ho indotta a credere che tutto fosse calmo come l’asfalto appena gettato sulla strada, fino al momento in cui non ci sono riuscito più. Ho fatto cose di cui ho provato a vergognarmi, ma non ci sono riuscito; mi sembrava tutto giusto, di una giustezza divina che tu non potevi capire.

Gera ha miagolato dal terrazzo. L’ho chiamata, le ho fatto un gesto con la mano; lei mi ha mostrato le spalle e se n’è andata. Anche a Gera ho parlato di noi, ma l’amore che nutro per te l’ha resa gelosa. Credo di doverlo prendere come un dato di fatto.

Il primo bacio che ti ho dato l’ho portato a casa con me. Il suo profumo è rimasto sulle mie labbra, sulla pelle. Avrei voluto portare anche la tua pelle a casa con me, le tue labbra. Anche se erano gelide, anche se tu, con me, sei fredda, non m’importa. Le avrei appoggiate al comodino, per prenderle ogni volta che ne avessi avuto voglia. E i baci che avrei dato a Gera avrebbero avuto il tuo odore, la sua gelosia sarebbe stata amplificata – magari mi avrebbe graffiato –, avrebbe cercato di strapparmi un occhio, perché Gera sa che ho bisogno di una penitenza, ha bisogno di una sofferenza che lo copra, come l’erba che copre il terreno.

Ma tu non sei mai entrata a casa mia, le tue labbra non ci sono mai arrivate e Gera non è potuta diventare quell’angelo feroce e salvifico che mi accompagni sulla strada della guarigione. La casa davanti a dove abito è vecchia e fatiscente, il tetto è fragile, gli uragani estivi l’hanno ferita, si intravedono travi di legno tra le tegole rosse. Le crepe sui muri sono diventate fossi da cui sgorgano insetti e muschio. È la vita che si fa strada e io ho pensato che, per dare un equilibrio, avrei dovuto portarci dentro la morte.

Tu non eri d’accordo, mi hai detto “toglimi le mani di dosso!” e “non toccarmi il collo ché mi dà fastidio!”, ma non c’era niente che potessimo fare per evitare la fine che avevo scelto. Una delle psichiatre avute in passato ha detto che ho la tendenza a portare su di me tutte le colpe del mondo, ma che non c’è nulla in me che mi renda responsabile. Ho voluto crederle, ma non potevo vivere così. Dovevo portare equilibrio nella mia vita, dovevo diventare responsabile di una morte.

E poi mi sono ricordato di tutte le volte in cui mi hanno detto che avrei dovuto scrivere i miei pensieri, di tutte le volte che mi hanno consigliato di tenere un diario. “Il diario è un amico al quale confidare i propri segreti” e io pensavo che anche lui sarebbe diventato medicina, al pari dello Xanax, del litio, di ciò che rendeva il mio cervello una poltiglia informe. Ho iniziato a scrivere una lunga lettera, una lettera infinita, perché non riuscirò mai a mettere l’ultimo punto. L’ho indirizzata a mia madre perché c’erano molte cose che avrei voluto dirle. Poi le parole si sono intrecciate l’una con l’altra, diventando una lunga stringa di caratteri indistricabili: è diventata una lettera a mia madre, a mio padre, a mio fratello, al mio datore di lavoro. Quando sei apparsa tu, un mercoledì, davanti al bancone della farmacia, la penna mi ha detto che era di te che dovevo scrivere e nella lettera ho iniziato a balbettare di amore, di pace e ristoro. Ho detto allo psichiatra “scrivo”, non mi ha chiesto dove. E allora ho scavalcato la recinzione, sono entrato nella casa disabitata che è diventata il nostro nido d’amore e ho consumato le penne sui muri, ho scritto di noi sui pavimenti. Le pareti sono testimoni di quanto tu sia stata importante, di ciò che mi hai dato perdendo la tua vita, della felicità di avere una colpa da portare da solo.

Entro in garage. Dietro al tagliaerba, appoggiata su una mensola, la tanica di benzina mi guarda con il suo sguardo rosa che ammalia. La porto nella casa disabitata. Gera mi taglia la strada, si struscia sulle mie gambe come se volesse fermarmi, ma sa che non può farlo, non ci riuscirebbe. Mio padre è rientrato, sento la TV accesa in salotto e so che si è addormentato in poltrona. Nessuno ascolta le parole che escono dallo schermo.

Nella camera da letto ci sei tu ad aspettarmi distesa sul pavimento. I tuoi capelli biondi sparsi sulle piastrelle rendono la casa più tetra. Le mosche ti volano sugli occhi spalancati che ancora trattengono la tua ultima paura.

Sul muro della stanza in cui ho dormito per tutta la vita ho scritto le mie ultime parole. “Il paradiso brucerà i miei occhi”.

Mi sdraio accanto a te, mi cospargo di benzina e poi ti do un bacio. Sei fredda come una stella d’inverno.

Accendo il fiammifero e tutto finisce, con un sorriso.

Un racconto di Gianluigi Bodi

Illustrazione di Gianmarco De Chiara

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