Gli orsi ballerini

«Ci sei più tornato al parco?»

Lui strofina il palmo della mano sui jeans, scuote la testa.

«Perché?» chiede lei.

Finora Adam ha trattenuto il respiro, per paura di scoprire quanto fosse cambiato in quegli anni il suo odore. Ma la voce è la stessa, quindi si concentra su quella severità, su quel modo un po’ maschile di appuntire alcune consonanti mettendole sull’orlo della lingua.

«Non vivo più lì» risponde.

È giovedì e il ristorante è quasi vuoto. A Braşov è già inverno. Lei passa il dito indice lungo la lama del coltello posato sul tavolo, sopra il tovagliolo, si ferma sulla punta.

«Perché mi hai chiamata, Adam?»

Ma a questa domanda, lui non ce l’ha una risposta. Neanche scavando con le mani fino a sentire il terreno umido di un’estate di molti anni prima. No, neanche lì riesce a trovarla. Allora continua a scavare, poi si porta le mani davanti agli occhi, guarda la terra che gli è rimasta incastrata sotto le unghie e scopre che sono tracce di pelle, di sangue e di carne, perché i ricordi vivono nella pancia, si nascondono lì ed è solo in quel modo che puoi riuscire a stanarli.

Il parco scivolava nella campagna da una discesa d’erba. Il vicolo Tiberiu Brediceanu si piegava in una curva su cui sporgevano le facciate scure delle case e superava la rocca Tăbăcarilor, per poi stringersi in un sentiero che filava parallelo a una lunga schiera di orti e di baracche.

Quando c’era il sole ne approfittavano per uscire di casa, nascondersi dietro il faggio a fumare sigarette, schiacciare i ragnetti rossi con il polpastrello e poi tracciare segni sul muro.

«Il mio prof di matematica sputa quando parla» disse lui, mentre lei soffiava via il fumo dal naso. Sulle mani ancora i segni della penna blu con cui avevano scritto i loro nomi su un cartellino, per presentarsi alla classe. Il puzzo della sigaretta scacciava tutti gli altri odori.

«Il mio professore di scienze ha parlato degli orsi ballerini» disse lei. Armeggiava con la cerniera del maglione, tirandola verso l’alto e coprendosi il mento.

«Gli orsi ballerini?» chiese lui ridendo. In quei giorni gli capitava di parlare e non riconoscere la propria voce.

Ma lei non rise e forse non se ne accorse. «Insegnano agli orsi a ballare, lo fanno anche qui e in Jugoslavia. Così le persone si divertono e pagano. Li catturano da piccoli, gli strappano i denti e li infilzano con un ferro incandescente nella mascella, per fare un buco.»

Lui non rispose, passava il dito su una puntura di zanzara che gli sporgeva dalla guancia.

Dopo alcuni secondi lei schiacciò la sigaretta nell’erba. «Ci mettiamo le mani?»

«Dove?»

«Nel cemento.» Alzò il mento per indicare il muso nero della oţelăre, oltre la strada.

Dei nastri rossi e bianchi chiudevano l’ingresso del capannone e si muovevano come fantasmi. «Non so» disse lui, scrollando le spalle. L’aveva visto fare in un film, ma era una di quelle cose che nella vita vera non succedevano.

Erano le due del pomeriggio e non c’era nessuno. Un raggio di sole sbatteva sulla saracinesca del magazin de băuturi, in fondo alla strada, cancellando le scritte e i disegni fatti con la bomboletta.

Lei si alzò e si tolse la polvere dai pantaloni.

«Ehi, che fai?»

«Vado a fare l’impronta della mano.»

«E se arriva Ionuţ?»

«No, a quest’ora non c’è nessuno.»

Adam rimase in silenzio, in quell’indecisione che lo faceva sentire sempre un po’ stupido. Lei attraversò il parco e mentre camminava alcuni insetti si alzarono dall’erba volando storti verso l’alto; si piegò sulle ginocchia e il maglione si sollevò appena, lasciandole una striscia di schiena scoperta.

Qualche secondo dopo si alzò e gli sorrise da lontano. «Puişor» gridò. «Vieni a vedere.» Lo chiamava sempre così quando voleva prenderlo in giro.

Allora anche lui attraversò il parco, scavalcando il muretto invece di girarci intorno, per fare più in fretta.

Nel cemento c’era il segno della sua mano. Le dita erano sottili, il pollice e l’indice quasi uniti, mentre tutte le altre erano aperte come un ventaglio. Sotto c’era la S di Sonia.

«Bello» disse, ridendo. Gli sembrò una cosa da bambini, diversa da tutte le altre cose di Sonia.

«Fallo anche tu. Qui, accanto alla mia.»

Adam appoggiò una mano per terra e lei la coprì con la sua, premendo per fare più forza. Lui si voltò a guardarla e il suo alito odorava di fumo e di covrigi.

Sotto disegnò una A, con una gamba più lunga dell’altra.

«È monca» disse lei. «Ma almeno abbiamo lasciato una traccia. In America lo fanno le persone famose.»

Adam strofinò il palmo della mano sui jeans, ma non riuscì a togliere del tutto quella sensazione appiccicosa.

Presero il sentiero e camminarono per un po’, poi Sonia accese un’altra sigaretta. «Mi scappa da pisciare» disse. «Vado lì dietro, non guardarmi.»

Adam arrossì. Si grattò la guancia su cui c’era ancora la puntura di zanzara in rilievo.

Lei gli porse la sigaretta, fece pochi passi sul sentiero e si fermò dietro la siepe che abbracciava l’ultimo tratto di un orto. Lui teneva la testa rivolta verso il parco, sopra il quale spuntava il tetto appuntito della Biserica Neagră, ma riusciva a vederla con la coda dell’occhio tra le foglie avvizzite. La guardò sganciarsi la cintura e abbassarsi i pantaloni.

«Ehi, non mi guardare.»

«Chi ti guarda» mormorò. «Mi fa schifo.»

Avvicinò la sigaretta alla bocca tenendola tra due dita e quando ci appoggiò le labbra si accorse che era umida. Immaginò che fosse una cosa simile a un bacio, a baciare Sonia.

La pipì cadeva sulle foglie secche facendo rumore. Quando erano bambini andavano sempre in bagno insieme, ma adesso era diverso. Gli venne in mente quel film porno che aveva visto insieme a Pavel al cinema Roşu e si chiese se anche Sonia fosse così.

Il richiamo di una stăncuţa si levò dal boschetto, dietro il mulino e i carri del fieno. L’aria puzzava di bruciato per i fuochi di stoppie nei campi.

«Cazzo» sussurrò Sonia, ridendo. «C’è qualcuno.»

Anche lui sorrise e sentì uno scossone nel petto, come quando rubavano le sigarette a Domniţa e poi scappavano via.

Il rumore della pipì si interruppe e ci furono dei passi. Lui si voltò e la vide, tra i buchi della siepe. Era ancora rannicchiata per terra e provava a tirarsi su i pantaloni. Aveva delle mutande piccole, azzurre. Davanti a lei c’era un uomo. Ai piedi un paio di stivali sporchi di terra, un cappello da contadino calzato storto sulla testa.

Adam smise di sorridere e i testicoli gli si avvizzirono fino ad attaccarsi al corpo.

Sonia non diceva niente, aveva il respiro veloce, le mani aggrappate come artigli al bordo dei pantaloni.

Poi l’uomo fece un passo avanti e lei cadde col sedere per terra. Adam lo vide avvicinarsi ancora, chinarsi su di lei, e lei provare ad allontanarlo con le mani; le dita sottili si muovevano come le zampe di un ragnetto schiacciato sotto un sasso.

«Stai nemişcat» ripeteva lui, con voce calma.

Adam rimase nascosto dietro la siepe, trattenendo il respiro e strofinando la mano sui jeans. Quella sensazione di vischiosità lo tormentava, allora iniziò a grattare il palmo con le unghie, mentre il cuore gli picchiava nella gola.

Non riusciva a smettere di guardarli. Ripensò agli orsi ballerini, e immaginò che dovessero muoversi proprio così: sguaiati, goffi. Gli stessi versi gutturali.

Pensò a quell’uomo che la trafiggeva con un ferro incandescente, le strappava i denti e la faceva ballare. E lei si agitava, si agitava. Era una di quelle cose che nella vita vera non succedevano.

Sonia non diceva niente, respirava soltanto. Sembrava sempre sul punto di gridare, ma poi non lo faceva.

Adam continuò a grattare il palmo della mano con le unghie finché lo sentì bruciare. A quel punto si voltò e si mise a correre.

Attraversò il sentiero e tornò sulla strada. Passando accanto alla oţelăre sentì il fruscio dei nastri e fece in tempo a voltarsi per vedere la mano di Sonia, sul cemento: le dita sottili, il pollice e l’indice quasi uniti, e la sua, accanto.

Superò le prime case e la bottega, attraversò vicolo Tiberiu Brediceanu, si fermò davanti alla rocca Tăbăcarilor e vomitò per terra.

«Cos’hai fatto in questi anni?» le chiede. Prende un sorso di vino e il calice lascia un alone violaceo sulla tovaglia.

«Ho provato a cavarmela. E tu?»

Lui scuote la testa. Una vita passata a nascondersi dietro quella siepe e poi a scappare, a ricalcare infinite volte quel momento.

Vorrebbe dirle che spesso pensa agli orsi ballerini, condannati a dimenarsi e a saltellare per far sorridere la gente. Vorrebbe dirle che adesso è illegale, che quegli uomini rischiano l’arresto.

Strofina il palmo della mano sul tessuto dei jeans. «Niente» risponde. «Non ho fatto niente.»

Un racconto di Pietro Santini

Illustrazione di Maria Sciannimanico

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