Uno che faceva sul serio

Alla Concrete Company ci veniva gente che faceva sul serio. Molto sul serio. Serio drammatico.

Alla Concrete Company si prendevano decisioni, e quelle si prendevano. Alla Concrete Company c’era gente spontanea, che si buttava, e che non si tirava mai indietro.

Alla Concrete Company la gente sapeva dove sbattere la testa.

C’erano undici piani alla Concrete Company. Mia nonna ordinò ai miei genitori di salire sui piani più alti e di ignorare assolutamente chi stesse al di sotto del secondo piano. Quella era gente che non faceva sul serio. Gente indecisa, che non si buttava.

E anche se si buttava, al massimo si rompeva un braccio o una gamba o alla meglio finiva in sedia a rotelle. Ma mia nonna aveva bisogno di un morto.

Aveva bisogno di un morto perché non le piaceva il nome di mio nonno. Mio nonno si chiamava Candido e secondo la tradizione mi sarei dovuto chiamare così anch’io. Ma mia nonna questa tradizione la ruppe, perché mio nonno era un porco bastardo.

Prima che mio nonno morisse, mia nonna gli disse: «preferirei che mio nipote prendesse il nome di un suicida piuttosto che il tuo».

E questo è il motivo per cui i miei genitori si ritrovano a premere il bottone 11 nell’ascensore della Concrete Company. Presero l’ascensore e non le scale perché mia madre era incinta di me.

Andavano disturbare la quiete di chi si voleva buttare. Si mettevano anche loro in fila e facevano domande sulla vita.

Meritavo il nome di una persona seria.

Scartarono subito le donne, perché un nome da donna non me lo potevano dare. Scartarono i nomi degli alcolizzati, dei drogati, dei pazzi, degli anoressici. Loro non facevano abbastanza sul serio.

Ne rimanevano pochi. E quei pochi avevano un nome brutto. E se ce n’era uno bravo, bello e gentile con un nome carino, quello si commuoveva talmente tanto, quando i miei genitori gli annunciavano che mi avrebbero chiamato come lui, che non si voleva più buttare.

E il nome di un vivo i miei non me lo potevano dare.

Fu una dura prova per loro. Erano disperati. Quasi quasi si sarebbero presi il numeretto per buttarsi giù anche loro. Per un attimo considerarono l’idea, ma poi sentirono un urlo da sotto.

«Il mio albero! Che cos’hai fatto al mio albero?!»

Un anziano piangeva, abbracciando un cipresso che stava sul cemento. Un suicida del secondo piano ci si era schiantato sopra. Lui era sopravvissuto. Ma l’albero no. Il suicida pesava troppo.

Un po’ di gente si mise in mezzo al marciapiede, impedendo ai suicidi di buttarsi giù. Volevano consolare l’anziano. «Vergogna!» Dicevano. «Ma dimmi te, di questi tempi uno non è nemmeno capace di uccidersi».

«A me piaceva quell’albero», singhiozzò l’anziano. «Era un lottatore».

La gente osservò bene il cipresso. Le sue radici strisciavano fuori dal cemento, gli urlavano: “e mollami!”. E il calcestruzzo, duro come la morte, se ne stava lì fermo, come se avesse tutto il tempo del mondo, e intanto toglieva all’albero ogni respiro.

Il cipresso faceva il suo. Lui tanto lo sapeva che quel calcestruzzo era un calcestronzo. Non aveva gambe, non si poteva spostare da qui a lì, non sapeva neanche che cosa significasse spostarsi, provassero loro a spiegarglielo. A differenza sua, un albero queste cose le capiva, e lui sì che si poteva spostare, almeno col pensiero. Solo così riusciva a tenersi in vita.

Ci voleva giusto un grassone piovuto dal cielo. 

«Povero albero», dissero tutti. «Così giovane. Non se lo meritava proprio, di morire».

«Vorremmo chiamare nostro figlio come quell’albero» gli urlò mia madre dall’undicesimo piano. «Come si chiama quell’albero?»

«E come volete che si chiami?» l’anziano rispose. «È un cipresso. I cipressi non hanno nome».

«Bene», disse mia madre a mio padre. «Chiameremo nostro figlio Cipresso».

Usciti dalla Concrete Company, i miei genitori chiusero la porta della macchina con soddisfazione. Accesero il motore e ci ripensarono. Chissà che avrebbe pensato, la gente, se mi fossi chiamato come il cipresso di un marciapiede. E se l’avessero abbreviato con Cesso?

Forse dovevo rimanere senza nome. Forse dovevo rimanere candido, come quell’albero. Sì, mi avrebbero chiamato Candido. Oppure no, Candido no, meglio di no.

«Cipresso, Cipresso, Cipresso», si dicevano. Lo pronunciavano e lo pronunciavano e quel nome ormai sapeva di tutto e nulla, si riempiva di mille significati, spunti interessanti, particolari, ma che non c’entravano niente con me. Cipresso era un albero che voleva sradicarsi, io avevo stabili radici. Cipresso si lasciava abbattere dal peso che portava sulle spalle, io avrei spostato le montagne. Cipresso era morto, io sarei vissuto per sempre.

Quando nacqui, per sei giorni di fila l’ostetrica andò a chiedere a mia madre che nome volesse darmi e per sei giorni di fila mia madre non trovò una risposta. Dal sesto in poi, smise di cercarla.

«Ho sfogliato l’intero dizionario dei nomi. Non ce n’è nessuno che si addice al nostro bambino», le aveva risposto.

L’ostetrica sbuffò. «Ma se non lo conoscete ancora!»

Mia madre alzò le spalle.

Per attirare la mia attenzione, mio padre faceva un fischio e mia madre, che non ci riusciva, mi metteva una mano sulla spalla. Mi volevano bene, come l’anziano ne voleva al suo cipresso.

Però Cipresso non mi potevano chiamare. Avrebbe fatto ridere, e io ero uno che faceva sul serio.

Un racconto di Sofia Casini

Illustrazione di Leiparlatroppo

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