Io li sento tutti

La prima volta che mi succede sono in giardino, ho in mano quella piccola creatura. Il vicino ha in mano la sua, la chiama lumaca, dice Facciamole andare insieme, vediamo qual è la più veloce. Io dico Sono chiocciole, non lumache; non la stringere, non farle male. La mia muove le antenne in cima alla testa, ne ha altre due più piccole che puntano avanti. Il vicino ha gli occhi piccoli, la gengiva gonfia, gli manca un grosso dente sopra, e quello accanto è cresciuto storto.

Ho quel piccolo corpo umido tra le dita, scivola sulla mia mano, poggiandosi come una ventosa; d’un tratto sente lo spavento, accorcia le antenne, si ritira piano. Il vicino guarda la sua, sorride con le gengive, ha gli occhi sottili, dice È troppo piccola. La butta a terra, la schiaccia sotto la scarpa. Sento sbattere il piede, scricchiolare i frantumi; vedo una poltiglia unta imbrattare le mattonelle. La schiaccia ancora, ride; il guscio crepita sotto la scarpa, lui ripete Era troppo piccola; io vedo il neo muoversi sul suo labbro, la gengiva di carne vuota, cado nel buio.

Quando riapro gli occhi tu mi guardi dall’alto, dici È successo un’altra volta. Sembri arrabbiata con me, poi ti metti a singhiozzare. Mi dici Pensavo fosse passata. Mi accarezzi la testa, dici Cuore mio, cuore mio. Poi dici Maledizione, succede ancora. Scopro che è da quando ero piccola. Dici Una volta avevi pianto troppo, eri caduta dall’altalena; un’altra volta quella bambina aveva tolto la testa alla tua bambola. Il buio ti veniva a prendere, eri così piccola. È successo ancora, dici, maledizione.

Capisco che hai paura. La gente in generale ha paura del buio.

Qualche settimana dopo, è il giorno del mio settimo compleanno. Torno da scuola, faccio le scale d’un fiato, ti dico Mamma ho preso brava nel tema. Tu dici Non ora, vai a vedere la televisione. Io ti dico Mamma, è ora di pranzo, è il mio compleanno; ho preso brava nel tema. A casa c’è tanta gente, non mi fanno passare, nessuno mi guarda. Il dottore esce dalla stanza della nonna, mi vede e fa gli occhi tondi, grandi, dice C’è la bambina, portate via la bambina. Io vedo la nonna nella fessura della porta, è bianca, ferma, sembra fatta di cera. È quando mi viene l’idea che la nonna sia diventata di cera che le ginocchia mi si piegano, e tutto diventa nero.

Ogni volta che torno dal buio, ogni volta che il buio mi riporta, tu sembri arrabbiata, poi piangi. Ti dico Mamma che importa al dottore delle assenze? Ne ho fatte pochissime. Tu non rispondi. Il dottore dice dell’ospedale, che bisogna andare là, dove hanno certe macchine, per guardare dentro le persone. Pare importante per tutti, questa cosa che ogni tanto cado nel buio, pare non andare a genio a nessuno. Mi mettono degli adesivi fin sulla fronte, sto quasi un’ora su un lettino, c’è uno schermo pieno di scarabocchi.

In genere, la gente ha paura del buio. Ma io so che il buio è solo un posto. Ho letto in un libro che il nero assorbe tutto, tiene dentro di sé ogni cosa. Dice che esistono anche dei buchi pieni di nero, in fondo al cielo; che sono stelle che collassano, e là dentro c’è un vuoto che ha dentro tutto; e nessuno da fuori può neanche vederne l’entrata. Ti dico Mamma, lo sai perché il nero non riflette nulla? Perché ingloba tutto. Ma tu non capisci, fai gli occhi tondi come il dottore quel giorno della nonna, dici Ti è successo ancora?

Il gatto rosso è sparito da tre anni. Questo è contro ogni logica, perché io e lui eravamo d’accordo di non lasciarci mai. Lui mi saltava in braccio facendo un rumoretto con la gola, una vibrazione; poi iniziava con le fusa, si faceva le unghie sui jeans, aprendo e chiudendo le sue piccole dita, graffiandomi appena. Stavamo naso a naso, sentivo il suo fiato tiepido sul viso, lo grattavo dietro le orecchie.

Io dietro le orecchie, da qualche parte, ho un buco. Penso che venga proprio da là, questo nero che a volte mi prende. L’hanno trovato facendomi scivolare dentro un tubo, dove non si può tenere il fermacapelli; ora è scritto nella busta di carta che porta il mio nome. C’è la mia testa disegnata, fotografata, non so, e ha un buco nero; è un angolo di buio, una stella collassata, a destra, in profondità, tra l’occhio e l’orecchio.

Io so che il gatto è morto. Tu mi dici Lo ha preso la vicina, quella strega se lo è messo in casa, giuro che glielo vado a chiedere. Ma io so che non è così. Anche la nonna, quando sembrava di cera, sapevo dov’era andata, la sentivo. Sono tutti là, e io li sento tutti. È pieno di occhi, di labbra, di mani. È qualcosa che respira sotto la terra, mi batte nel petto, mi pulsa alle tempie. C’è quella piccola lumaca. C’è la nonna di cera, c’è il mio gatto rosso.

In genere la gente ha paura del buio. Tutti pensano che dentro non ci sia nessuno, o che ci sia qualcosa di cattivo, che aspetta per farci  male.

Ora, nella stanza di ghiaccio, il sole è di neon, le dita sono di gomma; l’acciaio odora di un disinfettante che brucia in gola; ho prurito dove mi hanno rasato, ma non mi posso toccare, né vedere. La dottoressa ha la mascherina appena sporca di rossetto, mi sorride e mette qualcosa nel buco del mio braccio. Dice Conta fino a tre, ma il buio arriva prima.

In genere la gente ha paura del buio.

Io sento che è solo un respiro senza fine; un mare nero, pieno di creature; mi tremano nel cuore, mi parlano all’orecchio; io le sento tutte. Mamma non avere paura, io non ne ho.

Un racconto di Isabella Bignozzi

Illustrazione di Marco Pellino

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