Vento, Lacoste e pesce surgelato

Il racconto inizia quando la porta si apre e noi prendiamo posto a sedere.

Anni prima il ristorante affacciava sul mare, poi qualcuno ha alzato una parete di vetro e gettato del cemento sulla spiaggia. Ci sono degli scogli in superficie a forma di T. Prendiamo un tavolo da sei. Sudiamo e sfogliamo il menu, un asterisco ci mette a disagio: non vogliamo mangiare *pesce surgelato. Così come non vogliamo bere alcolici. Una ragazza con la coda e il viso gonfio attende che la metà di noi parli ed elenchi nomi di piatti. La sua cortesia è solo una questione economica, nulla di reale, una maschera tanto chiara che ci irrita e decidere un piatto diventa ancora più complicato. Troppi asterischi. Un regime alimentare che vieta categoricamente carboidrati la sera.

Ma una decisione va presa.

Il pane ci sembra fresco o è solo perché abbiamo fame. Si alza del vento e il rumore del mare si mischia alle nostre voci. Siamo dell’idea che l’acqua a temperatura ambiente disseti di più. Gli antipasti sono freschi, dice uno di noi. Ci imbocchiamo a vicenda, assaggiamo, commentiamo. Sappiamo come si fa, viviamo in un periodo storico in cui trasmissioni e talent basati sulla cucina sono i principali contenuti delle tv nazionali e satellitari. Parliamo di sale, di olio e limone. Utilizziamo le stesse parole degli uomini in giacca e cravatta della tv. La gommosità del mollusco in bocca è un chiaro indizio di freschezza. Ricerchiamo quella gommosità. Alcuni sembrano trovarla, altri no.

Ne discutiamo.

La mano di uno di noi sa di limone. La sigaretta dopo l’antipasto è un piacere che ci concediamo ogni volta. Alziamo un braccio, chiamiamo la ragazza al tavolo, le chiediamo altra acqua, altro pane, di cambiare l’ordinazione di uno di noi.

Carboidrati la sera è preferibile non mangiarne, neanche se fosse un’eccezione. Abbiamo regole rigide. È una delle cose di cui andiamo orgogliosi.

Cozze, calamari, vongole. Mangiamo anche le foglie di lattuga. Uno di noi dice che la sua mano continua a odorare di limone, nonostante il sapone che hanno in bagno, un sapone scadente, aggiunge, e che questa cosa gli sta rovinando la cena, la serata. Si isola, parla a monosillabi, alza la mano destra ma la ragazza che sembra si stia allenando per il supergigante di sci lo ignora. Sbuffa, ci riprova, questa volta lei lo vede, si avvicina al tavolo, piega la testa, dice la parola subito quando lui le chiede, per cortesia, di portargli un po’ di pane. Alza il tono della voce: è già la terza volta che lo chiedo.

Odore di triglie fritte, rumore di onde che sbattono contro gli scogli, voci di estranei e poi il vento che si infila tra le Lacoste.

Il pane tarda ad arrivare. Lui suda freddo, ha un nuovo tic nervoso con le mani, le batte sul tavolo, l’occhiataccia che gli manda la sua compagna, ce ne accorgiamo tutti, è umiliante. Mani, limone, pane. Nuove ossessioni, dovrebbe darsi una calmata, non è colpa sua, va capito.

Bisbigliamo quando un uomo di colore con le rose si avvicina al tavolo e punta proprio quello di noi che sta passando una brutta serata. Rosae, rosae, rosam. Il latino non è mai stato recepito dal nostro intelletto. Rifiutare, c’è modo e modo. Lo sguardo degli estranei attorno. Una serata perfetta per il ristorante. Altra occhiataccia, la ragazza arriva con il pane.

Indossiamo maschere, ma alla prima occasione il corpo ci tradisce.

Poi la sofferenza di quello di noi ci contagia. I secondi sembrano non arrivare mai. Quelli del tavolo di fronte sono già all’ananas e al tartufo.

Ora la ragazza esplode. Ora esplode davvero a causa del contatto fisico con uno di noi. La mano sul suo braccio.

Occhi di colore rosso. Odore indefinito di olio caldo.

Invece torna con due tranci di salmone su un letto di rucola condito con aceto balsamico e chiede scusa per il ritardo.

E lì uno di noi se ne accorge: saliva, in mezzo al pesce.

È proprio tra i due salmoni e la rucola, mischiato all’aceto balsamico.

Gli diciamo: ti sbagli, sarà il condimento, l’acqua di cottura del pesce, vedi, è aceto, è solo aceto.

Siamo poco convincenti perché è evidente essere saliva. Bianca, appiccicosa, un micro-budino.

La ragazza, l’obiettivo è chiamare al tavolo, la ragazza.

Sono io che alzo la mano.

Se non esplode ora – penso – non esplode più.

Un racconto di Francesco Aquino

Illustrazione di Maria Chiara Cannelli

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