Vito

Quando gli chiedono perché non avesse provato ad andarsene, a lavorare da un’altra parte, Vito alza le spalle.

Che cosa avrebbe potuto fare, poi? Alzare casse di frutta con Angelo, sì, ci aveva provato, una settimana, ma alla fine lui gli aveva detto che soldi non ce n’erano, e così se ne era andato. Manco i soldi per le sigarette.

Lui non lo voleva nessuno perché era tardo. Non capiva le cose, gliele dovevi ripetere. Non poteva fare un lavoro vero, solo qualcosa con qualche parente che lo prendeva per fare una buona azione.

Però lavorare lavorava. Come un mulo. Un mulo era Vito, questo aveva detto anche sua madre, quando aveva pregato lo zio Nino di prenderselo con lui in magazzino. È forte, guarda che braccia. Devi avere solo un po’ di pazienza con lui.

E i soldi servivano. Da quando papà era morto, era diventato lui l’uomo di casa. La mamma si alzava alle cinque di mattina per andare a fare le pulizie, ma aveva perso due lavori per via della schiena. Sua sorella era più incapace di lui, e poi con due bambini piccoli non poteva certo andare in giro a lavorare.

Così lo zio Nino aveva acconsentito. Passava a prenderselo alle sei, quando ancora le strade erano umide, e il sole pareva malato dietro a una foschia spessa.

La prima settimana era andata bene. Soldi niente, perché il proprietario lo doveva ancora pagare, ma quando lo pagava potevano stare tranquilli, che i suoi cinquanta euro a Vito non glieli toglieva nessuno. E poi gli comprava sempre il panino che voleva lui. Quello con la mortadella.

Vito non raccontava alla mamma che zio Nino perdeva la pazienza. Altro che perdere la pazienza, diventava sempre più arraggiato, più scorbutico. Un giorno lo lasciò pure morto di fame fino a sera perché aveva rotto il trapano. Ma non era colpa sua, era tutto vecchio e arrugginito.

– Au, menomato!

Lo chiamava da un capo all’altro del capannone, gli faceva fare avanti e indietro con gli attrezzi mentre lui magari si fermava, fumando una sigaretta.

Vito faceva pazienza, lo zio era nervoso, che ci si poteva fare.

Qualche volta gli aveva pure alzato le mani, lui che era più basso di venti centimetri, a stento arrivava al suo collo forte, che colpiva con tutta la rabbia di cui era capace. Figghiupessu.

No, non diceva niente, Vito. Così spiega. Non voleva fare impensierire la mamma, che già aveva tante preoccupazioni.

Così quando lo zio Nino gli fece quella piaga sulla coscia lui la tenne nascosta, curandola come poteva.

No, non si ricordava perché gli avesse fatto tanto male. Quasi quasi ci era abituato. Forse perché aveva sbagliato a sistemare gli scatoloni, o aveva lasciato il muletto in folle. No, non se lo ricordava.

Aveva sentito solo un bruciore nella coscia, come una lama. Si era girato, lo zio teneva in mano una cosa lunga, un pezzo di catena di trasmissione, forse.

Poi a casa si era abbassato i pantaloni ed era venuto via un pezzo di pelle, tanto che gli era uscito un lamento forte. Ci aveva messo una pomata che aveva trovato in bagno, ma forse non era giusta perché la ferita era suppurata. Ormai però ha la crosta.

Niente, la mamma non sapeva niente.

Ora la mamma piange. Certo, ora sono rimasti senza la settimana che porta lui, sono pensieri.

Sono gentili, con lui, quei poliziotti. C’è una signora con i capelli biondi che gli ha pure dato un bicchiere d’acqua. E nessuno lo chiama menomato.

Ma è troppo difficile spiegare com’è successo.

Deve trovare le parole, e soprattutto deve ricordarsi. Ma non ricorda niente. Le domande che gli fanno sono difficili. Quella signora con i capelli biondi ha tanta pazienza. Gli ha chiesto se ha fame, se ha bisogno di andare al bagno.

Lui ha bisogno di andare al bagno, ma si è vergognato.

Hanno fatto uscire la mamma, perché non deve stare lì. A Vito è venuto da piangere.

E si è ricordato che tutta la cosa era nata perché lo zio Nino aveva detto delle parole fituse sulla mamma.

Che parole?

Non se le ricorda, le parole. Era diventato rosso per la vergogna.

Ti aveva picchiato?

Vito non lo sa, se l’aveva picchiato. Forse l’aveva picchiato, ma lui non ci faceva più caso. Anzi si era abituato a scappare, quando si avvicinava con qualcosa in mano.

Sono tanto gentili, ma lui non ricorda niente di niente.

Solo la faccia dello zio Nino che si era fatta tutta viola, e le sue mani intorno al collo che era magro e con la pelle ruvida. Dalla bocca gli usciva un suono come dal lavandino otturato, e si era pisciato nei pantaloni.

Niente, non si ricordava niente.

Lo zio Nino, buttato come un sacco sul cemento, aveva fatto un rumore strano e non si era mosso più.

Quando era tornato vicino a lui c’erano le mosche che gli passeggiavano sugli occhi e sulla bocca aperta. Tutta la pelle del viso era piena di piccole macchie rosse.

Intorno c’era silenzio.

Si sentiva solo un cane abbaiare, e il ronzio delle mosche.

Un racconto di Daniela Ginex

Illustrazione di Nora

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