La madre e il bambino

Il primo mattino dell’anno, la superficie del lago nel parco di Wahnsinn era ghiacciata. La vita, da quelle parti, sembrava fosse stata congelata dal freddo e intrappolata nelle case con la scusa dei festeggiamenti. La città e il suo trambusto erano rimasti sepolti in una quiete bianca e gelida, le strade ripulite dal solito vociare. Gli unici rumori che Laune percepiva erano il cigolio del cartello su cui era inciso il nome del parco, il crepitio della neve e l’affanno silenzioso di qualche passante che, come lei, aveva sentito il bisogno di sparire per un po’. Ogni tanto, dalla carrozzina che continuava a spingere avanti e indietro usciva un gridolino, il manifesto di esistenza del bambino che sei mesi prima aveva avuto da Mark.

Due mesi più tardi, Mark era sparito lasciandola vuota e deserta come Wahnsinn dopo la bufera. Il petto le si inaridì e Angel dovette abituarsi prematuramente al sapore del latte in polvere.

Una stanchezza malinconica e spietata l’aveva costretta a letto per giorni interi, dopo l’abbandono, facendole perdere il lavoro. Sua madre aveva cercato di aiutarla, senza capirla, occupandosi della casa e del neonato e quando Laune le disse che voleva andarsene ne fu felice, perché pensava intendesse trasferirsi o partire per una vacanza. Poi, una mattina, le pareti della sua camera vibrarono all’infrangersi di un posacenere sul pavimento, le schegge di vetro sparse ovunque che riflettevano i primi bagliori: credeva di essersi sbarazzata di tutto ciò che lui aveva lasciato, ma certi oggetti erano diventati un’abitudine e difficilmente ricordava chi li avesse portati lì.

Odette aprì la porta e svenne. Quando si risvegliò, il frammento più grosso era ancora conficcato nel polso destro di Laune, che giaceva ai piedi del letto con le braccia sanguinanti mentre la pozza sotto di lei si allargava fino al tappeto. La madre vomitò per lo spavento, cacciò dentro il secondo rigurgito e si precipitò al telefono. L’ambulanza arrivò dopo venti minuti, dissero che c’era traffico, due infermieri caricarono Laune su una barella e la portarono fuori.

La neve cominciò a cadere sulla città che Laune era ancora dentro. Era una paziente tranquilla, il personale si fidava di lei e il dottor Diefenbach decise di lasciarle respirare l’aria natalizia.

“Da sola?” aveva chiesto lei, sorpresa.

“Sì. Con Odette e con tuo figlio, se vuoi.”

“Non ha paura?”

Il dottor Diefenbach chiuse il quaderno e fece un gran sospiro, poi si sporse verso il lettino: “Tu hai paura, Laune?” La donna vide la neve riflessa negli occhiali dello psichiatra e poi le mattonelle della sua stanza costellate dai cocci di vetro, la sua mano stretta attorno a uno di quelli, e pensò che la paura non le era mai appartenuta. Dubitò che fosse in grado di provarne.

Scosse la testa, sorrise, le mani piccole e smunte raccolte fra le gambe ridotte all’osso.

Il sole scendeva violentando con grazia la placidità della campagna, riempiendo il cielo di frustate rosa e violacee simili a squarci angelici. Le ombre nei campi tacevano pian piano e tutto s’incupiva fin quando l’Istituto non rimaneva l’unica fonte di luce oltre le colline. Dall’altra parte, una scintillante maschera di luci spogliava Wahnsinn del solito grigiore e la rivestiva di una pietosa atmosfera festiva, nella speranza che un paio di fili potesse nascondere l’inquietudine di tutti i giorni.

Il primo pomeriggio dopo il ricovero, Odette la accompagnò in centro per trovare qualcosa da mettere sotto l’albero. Sapevano che il bambino era troppo piccolo anche solo per capire cosa fosse un regalo, ma decisero entrambe di ignorare quella consapevolezza e usare il Natale come scusa per distrarsi; avrebbero fatto finta che fosse un giorno come un altro, che loro fossero una madre e una figlia qualunque, e il profumo di vin brulè e i venditori di Lebkuchen e le decorazioni fuori dalle case le avrebbero aiutate a dimenticare i loro problemi.

Camminarono in silenzio lungo Traumstrasse cercando di sostenere l’una la presenza dell’altra, fin quando non si imbatterono nella vecchia Weihnachtsfabrik. Le porte di quercia erano spalancate e il negozio accoglieva un notevole via vai di gente: famiglie, coppie in attesa, ragazzini col basco e le bretelle che scorrazzavano estasiati in cerca dei nuovi ferri con cui giocare ai cowboy. Le pareti erano ricoperte da scaffali esibenti sfilate di bambole, pupazzi e modellini, dai più ai meno costosi, mentre il centro del salone era occupato da un impianto ferroviario su cui sfrecciavano gli ultimi trenini elettrici della Maerklin. Odette rimase sbalordita dall’innumerevole quantità di dettagli della miniatura, decisamente più articolata dell’ultima che aveva visto, e i suoi occhi presero a viaggiare insieme a una delle locomotive attraverso i villaggi e dentro le colline. Scesa dai binari, si accorse che qualcosa non andava. Laune era immobile che stringeva i pugni di fianco ai soldatini di piombo e, nonostante le desse le spalle, poteva percepire la follia nel suo sguardo: davanti a lei, un giovane uomo teneva la mano sul pancione della moglie stringendola a sé e lei rideva, probabilmente per una battuta di lui, o forse solo perché era felice di essere lì, con la persona che amava, a scegliere tra le bambole Annabelle e Gretel. Quando Odette le prese la mano per portarla via, una lacrima le aveva già rigato il volto e le guance, scavate dal dolore, mostravano il rossore di chi prova un’emozione tanto forte da non riuscire a contenerla. “Andiamo via” le disse, poi sorrise alla coppia e fece loro gli auguri. “Compreremo qualcos’altro.”

Quella sera tornarono a casa con una tutina di lana blu e rossa per Angel, la stessa con cui Laune lo vestì per portarlo fuori all’alba del nuovo anno. Era la prima volta che manifestava il desiderio di uscire e passare del tempo con suo figlio e Odette credette fosse un buon segno.

Verso l’ora di pranzo, invece, la brezza del mattino si tramutò in un vento gelido e corrosivo, una potenza annullatrice in grado di spazzare via i rimasugli di flora invernale e insinuarsi sotto i cappotti, sotto la pelle, tra le falle di una quiete instabile.

Una crepa affiorò sulla superficie ghiacciata del lago, nel parco provinciale di Wahnsinn. Poi nessun movimento, nessuno a far caso al respiro della neve immobile; solo il pianto di un bambino nella sua carrozzina.

Un racconto di Caterina Migale

Illustrazione di Leiparlatroppo

Lascia un commento