Calcare

Mi ha detto: “Hai tutto ciò che volevi, Fabio.”

Magari, Dottoressa, avrei risposto io, magari. Ma il nostro è più simile a un rapporto di buon vicinato, una patina di buone maniere sedimentata in anni di cura, a botte di centoni a visita, condita da superficiali resoconti annuali. La Santini loda me ‒ adolescente gracidino, ora adulto profumato e rispettabile ‒ io ricambio quando cita convegni in Giappone, viaggi a Lima, impegni in Québec. Un elenco di inezie che tentano di colorare la nostra vita da una primavera all’altra. Quel giorno ha deciso di chiudere il duello annuale così, con quella sentenza affrettata: s’era convinta che la mia vita calzasse come un guanto, non c’era motivo di contraddirla.

Perciò ho annuito. Lei pure. Sono uscito chiudendo con cura la porta dello studio. Per i dodici mesi successivi avrei dimenticato la mia allergologa, la segretaria diligente ma freddina  ‒ come diceva mia madre  ‒ e come si fa una spirometria decente senza ripetere l’operazione quattro volte. Anche a trent’anni.

Almeno i polmoni stanno bene, da quando sono in cura da lei. Se solo sapesse, la Santini, che io l’architetto non lo voglio fare, che di sposare Sara non ho un cazzo voglia, che di andare in ufficio, a fare la spesa, a cena con amici ne farei davvero a meno. E non è depressione la mia, non è ansia. Nemmeno pigrizia, sia ben chiaro: mi sveglio alle sei pure di domenica. Mi informo, mi alleno, mangio sano.

Però, ecco, adoro starmene da solo. Chiuso a quattro mandate. A pulire. Dio, se amo pulire. È l’unica cosa che mi fa andare avanti quando il tempo s’inceppa, e i lunedì fanno fatica a diventare martedì: domani tocca allo studio, dico, e la notte quasi non dormo. Voglio alzarmi, cercare i rimasugli delle cancellature sotto la scrivania e lasciarli lì per il giorno dopo, un assaggio della passata di Swiffer che sarà. Arriccio i piedi nel lenzuolo pregustando la goduria della raccolta.

Che poi lo faccio apposta a dilazionare le pulizie. Lascio che casa si trascuri, che la polvere sedimenti sulle superfici a livelli indecenti, che i piatti invadano il lavello e le briciole dei biscotti stiano proprio lì, sul piano di marmo della penisola, in cucina. Intanto guardo lo sfacelo alimentarsi, possibilmente facendone ancora, facendone meglio. Quando la smania è incontrollabile mi spoglio, sto in boxer e comincio a stordirmi con ammoniaca, candeggina, con i detersivi più profumati e forti sul mercato. Non me ne manca uno.

C’è una cosa che più delle altre mi manda fuori, sa: il calcare. Da piccolo, a casa della nonna, buttavo giù a fiotti acqua del rubinetto non filtrata, perché a Torino quella corrente è buona, si diceva. Poi restavo a guardare la superficie opaca dei bicchieri di vetro vuoti, specie quelli scanalati e irruviditi da mille bevute. Passavo le dita dentro per cancellare le goccioline bianche in quelli puliti maldestramente, ché la nonna non è mai stata una che badava alle finezze. Una passata di spugna e via, come nuovo.

E così, ancora oggi, lascio che l’acqua dura logori il tubo della lavatrice, i pomelli del bidet, i rubinetti, il soffione della doccia. A volte il getto schizza in direzioni incredibili per quanto sono otturate le bocchette. Mi tengo il calcare lì, fino al compleanno. A quel punto è ora di una mondatura profonda, irrimandabile. Strofino, strofino finché non si rattrappiscono le dita. Quando taglio la torta davanti agli amici sento ancora l’odore di detersivo sulle mani.

Quello che sto cercando di dirle, Dottore, è che io a fare le pulizie in nero, in quel ristorante cinese alle quattro del mattino, c’ero per non impazzire, non perché abbia bisogno di soldi. Con quelli che erediterò da mio padre mi ci potrei comprare la Mole, si figuri. Ho provato a spiegarlo all’Ispettore del Lavoro che mi ha beccato, ma niente. Il problema è che per quanto lordi casa mia, prima o poi torna pulita. E dopo non c’è nulla da spazzolare, nulla da strofinare con forza… Mica posso suonare ai vicini, no? I miei stracci, le braccia, la mia testa non servono a nulla. Come faccio ad andare avanti se non so cosa pulire di lì a ventiquattro ore? A volte mi fermo in ufficio fino a tardi, sa, e mi metto a lavare tutto. Via le cartacce, via l’acqua lercia dello spazzolone del cesso degli uomini: rassetto per bene e torno a casa a dormire due ore, a notte fonda. Mi chiedo cosa faccia la donna delle pulizie nel nostro ufficio, prima che arrivino i miei colleghi.

Quindi la sera, quando non resisto, infilo il giubbotto in acrilico ed evaporo dietro detersivi e mocio, tra i palazzi sdruciti di Torino nord. Se qualcuno chiede, sono Vladislav, moldavo, trentacinque anni. Ma tanto mica vedono che sotto agli strati di vestiti, a pulire i cessi dei locali di scommesse, vado con le polo Ralph Lauren: non ascoltano, non osservano, quelli che ti mandano su Telegram gli indirizzi per i lavori. E nemmeno tu li vedi, ovvio: sei peggio del piscio che cerchi di annullare un colpo di mocio dopo l’altro per loro. Parto a notte fonda da Corso Marconi e finisco in Aurora, in Regio Parco. Rilucido all’infinito postacci che la mattina dopo saranno già bisunti, zozzi, malsani. Ma glielo giuro, Dottore, quando me la faccio a piedi fino al cinese di via Santhià, dove le incrostazioni di fritto non si levano manco col raschietto, inspiro coi miei polmoni curati dall’asma e penso: Cazzo, ora sì che sono felice.

Un racconto di Gabriele Sebastiani

Illustrazione di Maria Sciannimanico

Gabriele Sebastiani

Gabriele nasce a Torino, dove vive in un loculo tra libri, biscotti e scarpe. È toro ascendente ariete, cuspide su gemelli: è bene che si sappia, anche se non interessa a nessuno. Potendo scegliere, morirebbe come Ilaria Occhini in Mine Vaganti.

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