Casa d’aste

Abbiamo deciso di lasciar perdere una sera di novembre, dopo che lo sapevamo già da tanto. Di comune accordo, sul serio. Lo dicono tutte le coppie, ma per noi è vero.

«Anche Gaia e Alex si stanno separando…».

«L’ha detto anche a me».

Unghie in bocca.

«Almeno noi non abbiamo figli».

«E non ci siamo sposati».

«Però questo che c’entra, scusa».

Lasciarsi è stato semplice. Difficile è stata la burocrazia.

«Che ne facciamo di Cannocchiale?».

«Ma in che senso?».

«Nel senso che l’ho sempre portato fuori io. Sono due anni che tu manco lo consideri».

«Io l’ho portato a casa dalla strada. Lo porti fuori solo perché tu non hai smesso di fumare».

Risolino nervoso.

«Quindi, mi molli, e ti tieni tu l’unica cosa buona».

Silenzio.

«Ci si era detti di evitare le meschinità».

Invece non abbiamo scelto di comune accordo come gestirci le cose. Le maledette cose. Tutte le abitudini che si allacciano insieme per un periodo iniziano a saturarsi di oggetti.

«Beh, allora tengo io il minipimer. Tu non hai mai cucinato, nemmeno una volta».

«E il messicano?».

«Metà della roba era comprata, dai».

E si è finiti per dare un prezzo a tutti gli oggetti. Per ripicca, desiderio di ferirsi, perché lasciarsi nella più totale indifferenza faceva male ancora più che farsi male.

«Locandina di La Haine?».

«Tientelo e sticazzi».

Grafite che scribacchia via veloce dalla lista.

«TV».

«Duecento».

«Due e dieci».

«Te la lascio. A due cinquanta all’Unieuro ne ho vista una che è pure migliore».

Stanza dopo stanza, sezionando cartografie del nostro passato.

«Questo ranocchio? Neanche so cosa sia».

«Ma l’abbiamo preso a Copenaghen».

«Zero».

«Vabbè, se è così che vuoi gestirla… non lo voglio nemmeno io».

Il posacenere finisce per rappresaglia nella pattumiera.

«Oh, lo vuoi tenere questo?».

Preso per gioco in un self di sex toys, aveva provocato un po’ di fastidio per la sua vacuità in coppia. Ora stava in un cassetto basso dell’antibagno per fingere inutilizzo, ma qualcuno gli cambiava le pile.

«Dieci euro».

«Venti».

«Fammi capire. Te lo prendi tu che…».

«Non si sa mai… o devo stare in solitudine tutta la vita?».

Sorrisetto, spallucce.

«Chissene. Segna i tuoi venti del cazzo».

Uno ad uno tutti finiscono stracciati, nella nostra asta privata, alcuni presi solo per far male. Altri negletti, per posticcia noncuranza. E ci aggiriamo per stanze innevate di post-it coi nostri nomi, a sfogliare banconote da spartirci infine a metà, col puzzo di tribunale e quella frase del film che ci rimbalza in testa: “Non è la caduta, a farti male. È l’atterraggio”.

Un racconto di Federico Zagni

Illustrazione di Maria Sciannimanico

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