Shadowplay

“Vocat æstus in umbram”

Nemesiano

 

La storia era un continuo divenire di rapporti di forza, deterrenti che via via cambiavano luogo e forma, equilibri in costante mutamento: variazioni lente e inesorabili, poi anche rapidi sconvolgimenti. Tuffati dentro stavano come a mollo loro, legati a un tutto multiforme e magmatico. S’erano ritagliati un poco di spazio privato nel retro di un negozio abbandonato, perduto nei vicoli di un quartiere ormai quasi deserto; il loro tetto sfasciato ogni tanto lasciava intravedere le stelle, soprattutto nelle notti di vento. Un vecchio giradischi era tutto quello di cui potevano essere gelosi, l’unico tesoro rimasto da proteggere e nascondere: spesso faceva musica, gonfiando l’aria di note antiche e graffiate. I giornali arrivavano a volte a pezzi, condotti dal vento pagina dopo pagina fino alla loro soglia, dove si raccoglievano sbattendo ai piedi della porta di legno scortecciato; qui, spostando appena con la suola dei sandali le pagine, la ragazza leggeva del mondo con fare distratto e casuale. Le parole che tanto l’avevano spaventata un tempo la lasciavano ora indifferente, la schiena non più percorsa da brividi di timore e sconcerto: il futuro non la preoccupava più, perché si era infine resa conto di starci già dentro. Lui la guardava attraverso la porta semiaperta, seguiva i movimenti del piede che spostava le pagine cercando di non perdere di vista l’intera sua figura snella e scomposta nel sole, immaginando l’odore della sua pelle nel tepore del pomeriggio. Non le chiedeva più di leggere a voce alta per lui, non le faceva più domande quando lei, stanca, rientrava in casa scivolando leggera di fianco alla porta che si chiudeva cigolando. Passavano giorni senza che nessuna parola venisse pronunciata; sembrava che anche i loro corpi avessero rinunciato al suono, e avessero cessato di rivendicare la loro posizione nel mondo delle cose. Il giradischi suonava sempre più spesso, raccogliendo attorno a sé l’aria dell’estate incombente e colmandola di melodie remote; gli insetti diminuivano giorno dopo giorno, finché nessuno vide più una mosca, una zanzara, una cavalletta. Lui non ci fece caso.

 

L’aria dell’estate era comparsa come un morbo, un alito caldo asfissiante di spettro che fiaccava i movimenti e bloccava ogni cosa. Lui passava tutto il giorno steso sul divano, cercando di dormire; lei stava seduta vicino alla finestra, guardando fuori attraverso le tapparelle abbassate, come in attesa di qualcuno o qualcosa. La strada era sempre deserta. Lui non ricordava più l’ultima volta che si erano toccati, l’ultima volta che avevano dormito insieme l’uno di fianco all’altra. Poi, come il sospiro estremo d’un moribondo, un giorno il vento fuggì via e non tornò; sembrò stagnare anche il tempo. Il giradischi continuava a suonare.

 

In the shadowplay, acting out your own death, knowing no more.

 

***

 

Sta arrivando, disse lei un mattino rientrando in casa avvolta da un pulviscolo dorato. La sua voce sembrò giungere da una distanza infinita, da un tempo ormai passato, come la luce delle stelle. Lui la guardò senza capire, sorpreso di udire di nuovo quella voce delicata e impalpabile; avrebbe voluto parlare, ma un torpore incoercibile gl’impastava le labbra. Fuori, da qualche parte, qualcosa rombava cupo, facendo vibrare le tapparelle. Chi?, le chiese dopo un tempo che gli parve incommensurabile; il rombo, fuori, sembrò aumentare. L’ombra, disse la voce incorporea delle stelle, sarà qui prima di domani sera.

 

Il vento era tornato a soffiare, insinuandosi dentro da ogni fessura; sembrava voler scardinare la porta, schiantare i vetri delle finestre. Il sangue lo vide solo al tramonto, dopo una giornata passata nel dormiveglia sul divano. Si era alzato per fermare il giradischi che sibilava a vuoto, quando i suoi piedi sentirono il liquido denso ancora caldo; sulle prime stentò a capire, per un istante vacillò, poi la vide. Era notte ormai quando la porta cigolò e sbatté, quando lui tornò a far parte del mondo delle cose rompendo la quiete con un urlo animale, muovendosi a tentoni chino, frenetico, le ginocchia affondate nella polvere della strada; era quasi mattina quando rientrò in casa scosso da singhiozzi d’angoscia, stringendo in mano una pagina di giornale.

 

La storia non era composta da singoli eventi, non era fatta da poche persone: la storia si raccoglieva attorno a ognuno, a ogni cosa, era un magmatico divenire d’istanti piccoli, privati, si nutriva dei momenti dimenticati, e nessuno poteva sfuggirle. L’ombra giunse a metà pomeriggio. La vide arrivare dal fondo della strada, lenta e implacabile: dapprima le sue lunghissime dita si distesero sulle facciate dei palazzi più lontani, poi si trascinò avanti di casa in casa, s’arrampicò sui tetti più alti, si riversò sull’asfalto inghiottendo le carcasse delle auto e gli scheletri delle biciclette abbandonate, scivolò giù per i tombini, colò all’interno delle finestre dai vetri spaccati, s’insinuò dentro le porte divelte, serpeggiò nei giardinetti incolti, strisciò sopra alberi e piante, ricoprì ogni superficie, con la sua lingua nera lambì infine i suoi piedi sulla soglia. Il resto è nei libri di storia.

Un racconto di Diego Rossi

Illustrazione di Maria Sciannimanico

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