Di carta

Che calzini di merda.

Guarda i piedi di quest’uomo. Che calzini di merda gli avete messo.

 

Qualche ora prima non guardava calzini, era a casa sua. Faceva il caffè. Lo ha fatto due volte, il primo sapeva di ferro. La caffettiera ha schizzato sul piano della cucina. D’istinto un movimento più veloce degli altri, ha spento il fuoco. Ha versato il caffè nella tazza lasciando che altri schizzi gli scottassero le dita. Ha bevuto. Schifo. Ha versato il liquido nel lavello, tutto. Per qualche minuto è rimasto fermo col braccio nel lavello e il manico della tazza rovesciata fra le dita. Un alone scuro si spostava sul bordo bianco della tazza. Si muove, cola. Lo guardava. Poi le mattonelle, guardava il muro. Grigie. L’acqua del rubinetto forse era aperta.

 

Macché galeone, è una barchetta di carta.

E se è di carta come fa a stare dentro l’acqua?

Ma è finta, sarà di plastica. È solo fatta come una barchetta di carta.

Allora facciamo che è un galeone?

Perché vuoi il galeone, non ti piace che la palla c’ha la barchetta dentro?

Sì è un bel regalo papà. Grazie. Però se facciamo che è un galeone ci sono i pirati e le sirene… e le spade!

Le sciabole.

Sì le sciabole!

Vabbè, se vuoi fare che è un galeone fai che è un galeone.

Posso?

 

Ha tirato su il braccio. Ha sciacquato la caffettiera. Una riga di poltiglia di caffè è rimasta sul bordo di metallo. Ha fatto un secondo caffè. Erano anni che non usava la caffettiera. Il secondo era peggio del primo. Ha preso di nuovo il barattolo. Il terzo sarebbe venuto meglio. Si è fermato col barattolo in mano. Respirava irregolare, aveva l’impressione che il cuore ogni tanto desse un colpo diverso dagli altri. Ha lasciato il barattolo sul piano di marmo e si è seduto sulla sedia coi fili di paglia sfrangiati. Ha bevuto il secondo caffè. Sorsi piccoli. Guardava la palla di vetro sullo scaffale.

 

Smuovila un po’ ‘sta boccia sennò che ci stanno a fare i lustrini.

Ma se la muovo poi c’è la tempesta e i pirati sbagliano strada.

Rotta.

Non l’ho rotta papà!

Sbagliano rotta. La strada per mare si chiama rotta.

Ah. Sbagliano rotta.

Allora la agiti o no? Smuovila, così.

Aspetta, ma i pirati poi…

Vabbè fai come ti pare.

 

Ha ancora il sapore di caffettiera tra la lingua e i denti mentre guarda i piedi di suo padre e i calzini di merda che gli hanno messo.

La casa di sua zia sa di fumo. Sempre. Le bocche lo sputano mentre parlano. Voci basse, quasi tutte.

Vuole un bicchiere d’acqua. Lo chiede. Glielo porta sua cugina e glielo porge mentre non lo guarda e guarda l’altra cugina che gli dice qualcosa che lui non capisce.

 

Le piante nei vasi sul balcone sono secche, altre hanno le foglie gialle. I mozziconi sono spinti nella terra, il sole li prende di taglio. Sembrano piccole meridiane. I raggi superano i vasi, superano le scarpe dei parenti, la zia, le cugine, quello che non sa chi è, arrivano ai suoi piedi. A un piede solo, l’altro è nell’ombra. Sposta entrambi i piedi fuori dalla luce e si vede muoversi nella specchiera. Si è intravisto, non si era riconosciuto. Non si guarda negli occhi. Tiene la faccia giù. Non incrocia i parenti, non incrocia sua madre, non incrocia il gatto che muove regolare la punta della coda sul bordo pieno di peli del cuscino sui cui respira. Posa una mano sulle agende di suo padre, sul tavolo del salotto.

 

“Potevi chiamare. Almeno”

Guarda i bottoni chiari sul vestito nero della sorella di suo padre. Ruota gli occhi ma non muove la testa. Risale fino all’ultimo bottone sotto la pelle a rughe del collo di lei. La madreperla è passata attraverso l’asola e adesso è tenuta ferma lì, stretta, con la stoffa tutta intorno.

Guarda le agende sotto la sua mano.

“C’è una penna?”

Lei lo guarda. Si gira e va a aprire un cassetto in corridoio. Torna con una matita.

“Ho chiamato”

“Una volta”

“Ho chiamato, zia”

 

Apre un’agenda. Cerca una pagina bianca. Senza staccare la matita dal foglio fa scorrere la punta e traccia alcune righe. Strappa il foglio.

Lo piega.

Quando arriva davanti alla tasca della camicia di suo padre lo piega una seconda volta. Potevano scegliere altri calzini. Fa scivolare il foglio sotto la stoffa della tasca. Guarda la faccia di suo padre, ma la guarda nella foto accanto al letto. Nella foto ride. Che calzini di merda.

Si volta, esce dalla camera, scende le scale, si chiude la porta alle spalle senza salutare nessuno. Immagina sua madre affacciarsi dal balcone e seguirgli le spalle con lo sguardo.

 

In mezzo alla cucina, è rimasta un’ombra di caffè freddo sul fondo della tazza. Non lo beve. La palla di vetro è sullo scaffale. Si avvicina. Qualche ragno le ha fatto una sciarpa di fili intorno. Allunga una mano. Rimane a mezz’aria coi polpastrelli a un nulla dal vetro della sfera. Poi ci posa sopra il medio. Dopo l’indice, poi l’anulare. Chiude gli occhi. Respira.

Galeone, gli esce a mezza voce.

Facciamo che è un galeone?

Quello avrebbe dovuto scrivere sul foglio dell’agenda, invece di disegnare una stupida barchetta di carta del cazzo.

 

Il ragno, spuntato lì accanto, anche lui guarda i glitter adesso. Lustrini argentati che turbinano nell’acqua ora che la mano ha agitato la palla in aria due o tre volte, dopo averla alzata dallo scaffale strappando tutti i fili della ragnatela.

Illustrazione di Maria Caruso

Martina Vianovi

Passati i trenta, al ritenersi una persona seria preferisce: annaffiare il basilico, fare bozzetti ad acquerello, girare in bici fino a perdersi, godersi l’odore delle quinte in teatro, fuggire verso il mare ogni volta che può, scrivere di notte. Cosa porteranno i prossimi trenta non sa, ma non vede l’ora di scoprirlo.

2 thoughts on “Di carta

  1. Con poche parole hai descritto un rapporto. Il “fai come ti pare” è lo spartiacque con l’età adulta, trasforma quasi il racconto in racconto di formazione. Sta al lettore poi, vedere le evoluzioni che vuole sul personaggio; io ho visto le mie. Ti sono grata per avermi dato questa possibilità.
    Ciao

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