Antiproiettile

Ho sempre desiderato possedere un giubbotto antiproiettile. Quando ero piccolo mio padre ne teneva uno nell’armadio di camera sua, lavorava in polizia. Spesso rimanevo in casa da solo e facevo quello che mi pareva: salivo al piano di sopra, entravo in camera dei miei, aprivo l’armadio e, tra le camicie e le giacche, trovavo il giubbotto antiproiettile di mio padre, lo tiravo a fatica a terra, lo lasciavo andare sul pavimento.

Lo indossavo sdraiandomici dentro, rimanevo immobile in quella sicurezza pesante, troppo piccolo per mettermi anche solo a sedere; crescendo, ho iniziato a camminare per la stanza dei miei, poi sono sceso al piano di sotto, mi sono guardato allo specchio del bagno.

Prima che i miei tornassero la sera, trascinavo il giubbotto nell’armadio e lo appendevo sulla sua gruccia. Uscivo dalla camera senza lasciare traccia.

 

Lo scorso martedì stavo seduto a mangiare su uno sgabello bianco, i gomiti poggiati sul bancone accostato alla parete trasparente, sbriciolavo una piadina troppo cotta. Scaglie bruciacchiate si schiantavano sul legno senza produrre rumore, morivano in silenzio.

È successo che lei ha attraversato la strada sulle strisce pedonali.

Oltrepassava la voragine di cemento che separava una striscia bianca dalla successiva con la sicurezza di un proiettile che sa bene quale sia la sua destinazione.  Il piede destro raggiungeva il bianco lucido, mentre il sinistro continuava a giocare la sua partita con il cemento compatto. Portava stivaletti neri, immaginavo il piede scivolarvi avanti e indietro di qualche millimetro a ogni passo, calze opache e gonna fino al ginocchio, marroncina.

Ho tremato e nuove briciole sono cadute a cascata dalla piadina ancora calda; ho pensato all’armadio di mio padre e al giubbotto antiproiettile nascosto tra le giacche e le camicie. Insieme all’ultimo passo, quello che l’ha portata in salvo sul marciapiede, dalla parte opposta della strada, ha concluso un movimento armonioso della mano destra, le cinque dita vicine all’orecchio.

Si è scostata i capelli dal viso; quasi approdata sul marciapiede, ha avuto il coraggio di sbirciare l’ultimo centimetro di asfalto, liberando lo sguardo dall’impaccio dei fili rossicci.

 

Mio padre è tornato a casa tardi, il giorno in cui non avevo potuto indossare il giubbotto. Mia madre aveva messo in frigorifero la cena che lui avrebbe dovuto mangiare; è arrivato a casa dolorante, si è sfilato il cappotto e il maglione, ha tolto la maglietta al rallentatore e aveva un grosso livido sul petto, sotto la clavicola destra. Un’enorme macchia violacea dai contorni verdognoli.

Il giorno dopo, solo in casa, ho steso il giubbotto antiproiettile a terra, in camera dei miei, e mi ci sono infilato dentro, come avevo fatto le prime volte. Credo di essermici addormentato.

 

La notte di martedì sono rimasto sveglio a fissare il soffitto della mia stanza: al buio non lo vedevo. Una pallottola veniva verso di me argentata, roteava all’infinito sempre più vicina e non mi lasciava scampo. Ho immaginato di essere un pistolero nel selvaggio West, dal polso troppo lento per poter sopravvivere al suo primo duello, gli occhi fissi sulla pallottola che lo sta per seppellire sotto un leggero strato di terra, forse sufficiente a preservarlo dalla voracità dei coyote. Quella notte, invece del soffitto della mia camera, vedevo la pallottola roteare.

Il pomeriggio di martedì, fino a che il sole è rimasto al mondo, l’ho passato sdraiato sul prato dei giardini vicino all’università; avevo un libro di testo e un evidenziatore, gli occhi mi lacrimavano per l’allergia all’ambrosia, ma adoravo stare alla luce, disteso a terra. Gruppi di altri studenti passavano a pochi passi da me, in fretta e silenziosi, rispettosi del mio angolo. Il piede sinistro già sul marciapiede, il destro ancora a mezz’aria, la ciocca di capelli rossi scostata dal viso, io a tremare: a questo pensavo al termine di ogni frase sottolineata in giallo intenso. La pallottola che avevo scansato, che mi era passata a pochi centimetri e che avrebbe potuto distruggermi. Che avrebbe potuto dare inizio alla distruzione.

La notte di martedì a fissare il soffitto, a chiedersi cosa fare, come schivare la pallottola argentata. Mi sono rivisto nell’erba universitaria; non avrei mai immaginato che sarebbe successo proprio lì, nel mio angolo, in quello spazio che avevo cercato, che avevo costruito. Gli stivaletti neri, a vederli da vicino impolverati, le calze scure, la voce che scendeva lungo le gambe, che era il contrario delle gambe, chiara, cristallina.

E il giubbotto antiproiettile di mio padre chiuso nel suo armadio di poliziotto in pensione, inutile. Perché quando lei supera lo strapiombo per svelarti il suo nome e tu le dai ascolto, le porgi orecchio, allora la notte stessa ti infrangi sul letto e cerchi il soffitto nel buio e scorgi la pallottola e su di essa le lettere elegantemente incise. A tentare l’inizio di un rapporto e a sancirne la fine inevitabile.

E chiudi gli occhi.

Un racconto di Matteo Brandolini

Illustrazione di Angelo Policicchio

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