Il mito di Nora Baum

Si narrava in Germania che Nora Baum fosse arrivata a Berlino il 4 Ottobre del 1987. Sulle strade, in quel giorno, concorrevano alla 13esima edizione della Volks Marathon ben 15’461 partecipanti.

Benché non fosse iscritta, la sua partecipazione alla maratona venne decretata in silenziosa armonia dalle persone che affiancarono la sua corsa, perché questo faceva, Nora Baum: correva.

 

Nella Berlino di allora, Nora era arrivata correndo, come sempre veniva e andava dalla maggiore età.

Ogni tanto vedeva, lungo le strade, il giallo ocra della Skoda 100 di suo padre.

La ricordava bene, Nora, quella macchia di senape su quattro ruote. La ricordava bene.

Della sua infanzia aveva messo da parte, in un grumo, l’odore dei rivestimenti interni, le ragnatele sul cruscotto, le crepe nella plastica e il rumore del finestrino, che si abbassava sempre e solo a fatica. Fatica sua da bambina, nel girare la manovella, e fatica del finestrino, con gli anni, nell’obbedire al meccanismo interno.

Aveva messo da parte tutte le parole di troppo, grosse, grasse e maleodoranti, che si erano infilate fra lei e suo padre, mentre per ore, sciagurato, le narrava del compagno di sua madre, dei rumori che fanno gli amanti di notte e delle donne sporche e seduttrici. Le donne che disprezzava e che descriveva con la lingua zuppa di saliva.

Aveva messo da parte, in un grumo, tutte queste cose, che l’avevano affollata come i famosi elefanti della barzelletta. Gli elefanti che non si sa come dovrebbero entrare tutti in una Fiat 500.

 

Trovare un lavoro non era stato un problema. Nemmeno trovare un passaggio da un’amica che sarebbe partita la mattina insieme a lei. Sarebbe, se Nora fosse rimasta anche dopo i primi mesi di fabbrica, affrontati pedalando sulla bici del nonno. Con l’arrivo dell’inverno si era detta che trovare un passaggio sarebbe stata una buona cosa. Quella bici di famiglia poteva usarla solo la mattina, quando il freddo pungeva di più, e la routine del nonno la reclamava già nella pausa pranzo. Con una lunga passeggiata digestiva, suo padre andava a riprenderla nel cortile della fabbrica, dove era parcheggiata, ma nella prima settimana di novembre aveva già messo in chiaro che queste spedizioni pomeridiane sarebbero finite al cadere delle ultime foglie. La bici non sarebbe più stata un’opzione.

Per evitare il grumo, pensava Nora, sarebbe bastato evitare la Skoda.

 

Alle 7 e un quarto del 24 Novembre, la macchina di Anja, sua compagna alla catena di montaggio, si accostò a Nora e una nuvola di fumo uscì dall’abitacolo, con l’aprirsi della portiera. Come tutte le mattine, Anja si accendeva una sigaretta appena salita in macchina, e Nora pensò con un sospiro all’odore di fumo che l’avrebbe accompagnata fino alla fine dell’inverno.

Al grumo, ovviamente, non aveva prestato nessunissima attenzione. Lo credeva ancora là, assopito nel cruscotto della Skoda. Non l’aveva sentito attraversarle la schiena e scivolarle in mezzo alle costole.

Al terzo o quarto sorso di caffè aveva pensato che un chicco fosse sfuggito alla macinatura e le si fosse incastrato lungo la trachea.

Il grumo s’era fermato nella cassa toracica, causandole una fitta intercostale, e aveva liberato in un attimo brevissimo tutte quelle cose che lei gli aveva affidato; come un buco nero impazzito, che avesse tutto d’un tratto ricacciato anni ed anni di materia compressa.

Il corpo di Nora s’era riempito di buio.

Anja s’era fermata, in un panico condiviso, e Nora s’era scaraventata via dall’abitacolo, cercando fuori quel che aveva perso dentro: l’aria.

La preoccupazione di Anja per lei aveva gradualmente lasciato il posto alla preoccupazione del cartellino da timbrare, e mentre il tempo passava bisognava decidersi. Anja ripartì, Nora volle andare a piedi. L’ora camminava più in fretta di lei e non restava che correre per non fare tardi.

Non era male, questa cosa della corsa.

Superò la fabbrica: fermarsi sembrava ragionevole, ma la ragione non era stata quell’ancora di salvezza che Nora aveva creduto che fosse.

Indietro non era posto dove torna chi fugge.

 

Da quel giorno, lei e il grumo si erano spartiti le reciproche aree di competenza: nei mezzi di trasporto, quelli chiusi, a Nora mancava l’aria; correndo, invece, il fiato non mancava più, non mancava mai.

La folla berlinese l’aveva integrata a sé come se Nora fosse stata in mezzo agli altri concorrenti sulla linea di partenza.

Le maratone, si sa, sono una storia di respiro collettivo, e Nora non respirava mai così bene come quando correva. Respirava per tutti, perché tutti andavano dove andava lei: verso un traguardo lontano.

Per fuggire dall’infanzia tocca correre per anni.

 

Nora tagliò la linea d’arrivo per prima, quel giorno, ma non si fermò. Molti dicono che abbia continuato a correre senza mai fermarsi e che sia scomparsa fra le onde, dopo aver raggiunto le coste del Mare del Nord.

Per alcuni è la storia di una ragazza afflitta da una strana forma di male, che in una fuga disperata si ritrovò ad attraversare Berlino durante la Volks Marathon e che poi proseguì fino all’oceano, dove finì per annegarsi.

Altri, invece, preferiscono pensare che abbia fatto il giro del mondo correndo sul fondo dell’acqua e che si sia stabilita in Patagonia.

Difficile dire da dove nasca il bisogno di un mito. Certo è che ogni racconto richiede una scelta; non si sa mai a cosa può servire una storia.

 

Un racconto di Eleonora Natilii

Illustrazione di Matteo Perdon

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