Uno stato inglorioso dell’essere al mondo

Iniziarono a stigmatizzare i miei comportamenti da quella volta che per sbaglio passai sopra alle mani della zingara, china davanti all’ingresso del supermercato, con il carrello della spesa. D’altronde, le uniche cose che era riuscita a raccogliere erano qualche spicciolo e un sacco di polvere e smog, rompendole tre dita mi parve quasi di averle fatto un favore. Oppure quella volta che, sempre senza volerlo, spinsi sotto il tram quel ragazzo ghanese che vendeva gli ombrelli. È vero, agitai braccia e gambe urlando nella sua direzione, colpendolo più volte. D’altronde quella mattina ero molto nervoso e poi, quando ti coglie alla sprovvista, la paura gioca brutti scherzi. Lì ci rimasi davvero male: chiusero quasi tutto il centro, avevo fretta e anche il tram dovette fermare la sua corsa. Un inferno che mi fece perdere quasi un’intera giornata di lavoro.

 

Mi creda, dottore, sono veramente sfortunato.

 

In fin dei conti sono solo una persona che ammira ardentemente chi sta meglio, non uno che odia chi sta peggio. Ad esempio, il criterio con cui ho scelto il suo studio è stato uno solo: lei, in zona, è quello più caro. Non sia mai che io vada da uno di quegli psicologi con la fissa di far del bene a prezzi popolari, ridicolizzando un’intera categoria di professionisti. Che schifo. Io l’ho scelta anche e soprattutto per l’opulenza della sua sala d’aspetto, e inoltre non l’ho affatto discriminata per il colore della sua pelle. Penso che quei quadri, i tappeti e il vinaccia delle tende di velluto valgano da soli il prezzo di ogni seduta.

 

Aporofobia. Davvero si chiama così, dottore? Mah, a me sembra un’altra di quelle invenzioni per far girare qualche psicofarmaco in più. Marketing di base: non ci vuole un cazzo, mi scusi la parola, a capirlo. Basta aggiungere il suffisso –fobia e si può rendere interessante qualsiasi cosa, addirittura la povertà.

Comunque, terminologia a parte, col passare delle settimane la situazione è andata peggiorando. Ho iniziato a perdere il controllo dei miei pensieri, le paure si accavallavano. Ma secondo lei la zingara, il ghanese e gli altri eventi più o meno insignificanti che mi sono capitati in questi ultimi mesi, possono essere stati organizzati ad hoc per farmi passare male agli occhi della gente, oppure è stato solo il mio inconscio a battere qualche colpo? Non so, comunque spero di riuscire a sciogliere questo nodo con un costoso ciclo di sedute.

 

Dicevo, alla fine sono arrivato ad avere un tracollo emotivo. Al supermercato mi guardavo attorno inorridito, perseguitato da orde di poveracci che prendevano in mano scatolame “primo prezzo” di dubbia provenienza. L’indigenza si nascondeva in qualsiasi scaffale. Si figuri che ho passato anche un breve periodo di masochismo sfrenato. Andavo cercando la povertà, e girovagavo nei peggiori discount spingendo quei carrellacci plasticosi da tossici, giusto per guardare male la gente. Scrutavo i loro occhi vacui cercare la miglior offerta, cibavo la mia paura con le loro membra stanche, i visi emaciati e l’inutilità del loro essere al mondo. Più ne ero inorridito, e più godevo. Ma, ripeto, è stato solo un momento passeggero.

Di recente su un giornale locale è uscito anche un brutto articolo su di me perché una decina di giorni fa, durante la raccolta per il Banco Alimentare, mi sono scagliato contro una volontaria che aveva avuto il coraggio di porgermi una di quelle buste biodegradabili di merda, magari per metterci dentro un pacchetto di riso o una confezione di fette biscottate. Col cazzo, le ho detto, brutta stronza approfittatrice, ho continuato, come ti permetti. Il solo contatto dei polpastrelli con la plastica marcia di quella busta mi ha causato un conato di vomito. La donna mi ha denunciato e la storia è finita su questo giornale che ha ingigantito la questione: additato come un razzista, uno xenofobo, un ignorante. Nessuno si interessava alla mia condizione, ero trattato come un emarginato e quindi, da aporofobico emarginato, sono passato a essere discriminato sia a casa sia a lavoro. Tutti, dottore, ce l’avevano con me, e in breve tempo sono rimasto solo, senza un soldo né un impiego. In una parola, povero.

 

Ora faccio questo sogno ricorrente in cui esco dal mio corpo, sì, proprio dal mio corpo, guardo come mi sono ridotto e, dopo aver cacciato un urlo, mi sputo in faccia. Non so spiegarglielo meglio, dottore, ma c’è questa persona che sono chiaramente io uscito dal mio corpo che non fa altro che urlare e sputarsi addosso. Sono settimane che mi sveglio con le lacrime agli occhi e il cuore che mi batte all’impazzata.

È un desiderio reale, quello di uscire dal mio corpo. Autoaporofobia, potrei chiamarla così? In fondo, rappresenta la mia attuale condizione, dato che in questo momento non riesco a gestire l’immensa paura che mi faccio. Mi sono rimasti solo i soldi per questa manciata di sedute di psicoterapia, e poi sarò uguale a loro. Povero e schifato da tutti, me per primo. E ogni giorno che passa, mi accorgo che la povertà è solo uno stato inglorioso dell’essere al mondo, e poco più.

 

Un racconto di Marco Parracciani

Illustrazione di Maria Caruso

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