Rame

Premeva sempre la parte bassa della pancia contro la ringhiera del balcone del quinto piano e inchinava il mento in direzione degli aceri piantati nel giardino e tanto seguiva col peso delle braccia la rotta del vuoto libero, che le prime volte che la vedevo pendere, mentre portavo a spasso il cane, pensavo di dover correre subito a attrezzarmi di lenzuolo elastico e cappello da vigile del fuoco per salvarle le budella e tutte le sue ossa gracili dall’urto secco con l’asfalto solido di strada. “Vuole suicidarsi”, e mi partivano i sudori che dalla testa scendevano fino a sotto i piedi.

Aveva un ricciolo annidato attorno all’orecchino in perla, la prima volta che l’ho vista da vicino. Un’espressione di pace nell’azzurro fiordaliso dei suoi occhi grandi e una bocca da bambina stretta e gonfia ai lati. Ha abbassato subito la testa quando ha visto che le scale del suo condominio erano affollate ma non le è bastata la repentinità perché io le ho fotografato il volto e l’ho inchiodato come un quadro di valore folle tra la materia grigia.

Da quel giorno non ho smesso di pensarla: nel letto era supina con le lenzuola in seta avvinghiate attorno ai seni molli; al supermercato la lordosi le schiacciava sulle vertebre sacrali mentre, con le dita tese, cercava di rubare l’ultimo barattolo di pelati e aglio; sul divano immobile tra le righe di un giornale a caratteri minuscoli, che per poterlo leggere sacrificava in pieno a chi guardava la vista dei suoi occhi fiordaliso; sotto la doccia era nuda e dalla strada le raccoglievo le lacrime che sgocciolavano dal balcone al quinto piano, dalla ringhiera in ferro che le premeva il basso ventre.

 

Una notte c’è stato il temporale. Gli aceri si aggrappavano alla terra imbevuta nel torbido e da quanto sconfitti sembrava languissero nel buio; rigagnoli irrompevano contro argini di fango; i chiusini sputavano acqua e sassolini e il boato dei tuoni si rifletteva per intensità nelle pozzanghere. Dalla strada ho visto l’azzurro dei suoi occhi e poi i lampioni che già erano ombrati dalle gocce troppo intense hanno fatto cilecca tutti insieme. Sono sceso dalla macchina e ho cominciato a correre: la porta del palazzo non si apriva, e io ho dato un calcio forte al chiavistello. È rimasta chiusa. Ho dato un altro calcio, e poi un altro ancora. Si è aperta. Era tutto spento. Mi sono aggrappato al corrimano freddo e con le scarpe in gomma che slittavano sul marmo mi sono fatto cinque piani e centoventisei gradini in meno di quarantadue secondi.

“Apri!”, ho urlato, e sembravo un pazzo. Dei passi e sono stato accontentato.

 

Aveva un maglione in lana bianca che le correva largo contro i fianchi storti; aveva delle calze grosse che fasciavano un paio di caviglie grasse; e poi mi sono consumato nei suoi occhi azzurro fiordaliso. E mi guardava fissa. “Si è spento tutto.”

Mi ha fatto entrare. Si è messa con il ventre contro la ringhiera del balcone e con le dita di una mano reggeva una cicca consumata a mo’ di lampadina e sputava il fumo che si scioglieva nel diluvio. Si è voltata: “Mi piace il rumore della pioggia.”

Anche in mezzo al nero si vedeva luccicare l’azzurro dei suoi occhi fiordaliso e mentre mi vincevano, un lampo nel crepuscolo. “È tornata la corrente.”

L’acqua tintinnava tra i solchi concavi della grondaia in rame blu. E il cortocircuito liquefatto dai fiordalisi negli occhi e una cicca mangiata dall’acqua.

Un racconto di Camilla Corrizzato

Illustrazione di Nora

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