Fetish fermoposta

N. guarda l’ospedale tra i vetri bucherellati della finestra. Un salice piangente agita le braccia nella nebbia, lunghe file di lampioni fluttuanti, tanti piccoli ribes maturi lungo la fiancata est. Pioviggina e a breve dovrà rincasare, N, che oggi non ha avuto nulla da fare, se non portarsi appresso l’amante in quella topaia sfitta. Pensa a sua madre. Il tavolo della cucina, tre piatti di plastica sulla tovaglia in acetato, la bambola di vetroresina a cosce aperte tra i farmaci scaduti, una forchetta conficcata nel ventre coriaceo. Quella che chiama mamma, con molle accento di provincia, scarafaggio lucido, immortalata nel neon domiciliare, trapunta da uno spillone avvelenato. Parla poco, ultimamente, ma a N. non importa più, ormai ha il suo nuovo giocattolo, un giocattolino davvero di primo pelo.

Luna stesa sul materasso pisciato, triangolare e soffice. La soffitta puzza di cera e dentifricio, un diluvio ingravida la nebbia, la fabbrica scompare dietro fitti violenti rasoi. È un quadro a cui è impossibile dare un titolo, un cortocircuito fradicio. È il mondo che affonda oltre le lacrime di Geova.

N. ha la lingua secca. Il mondo naviga oltre la dimensione che ora abita, emergendo e scomparendo tra i flutti acidi. La nudità di N. fatica a celebrare il proprio riflesso. I polpastrelli sfilano lenti sul vetro della finestra, una leggera pressione, una traccia appena percettibile, quattro lettere.

Il sito ha il nome di una fata, la ragazza si faceva chiamare Luna, la didascalia si imponeva all’occhio chiara e concisa: vendesi mutandine usate a soli venti euro.

Una candela alza riflessi di cera sul muro, N. reclina il capo, lievemente, verso destra.

È ora di tornare a casa.

Andiamo Luna.

Risponde al telefono, è Rea.

“Sì amore, stasera, certo amore, stasera, sì, certo …”

 

Colazione. Rosa confetto: cucina. Rosa confetto: piastrelle. Rosa confetto: tre volti attorno al tavolo che si ribattono l’un l’altro sguardi, occhi, piccoli cucchiaini tremolanti, molli e vacui. Rimbalzano come all’interno di un ring. Luna, stesa sulla sedia vuota, accomodata con cura oltre la tovaglia di modo che nessuno possa vederla, trafitta da un tremito di sole che sfida la carta trapassandola. N. la guarda con dolcezza e desiderio. Sua madre porta un biscotto alle labbra rosse. Sacro Graal succoso, un pomodoro suda sulla sedia, accanto a Luna. È lì da ieri sera, nessuno lo ha rimesso in frigo N. lo guarda da quando si è seduto a tavola. Nessuno parla, un uomo all’angolo della strada urla, un indovinello senza volto, un urlare sterile. N. avvicina l’indice sinistro al pomodoro, senza pensarci troppo, lo affonda lentamente nella polpa, quasi come se fosse un’abitudine, un rito, una preghiera. Pensa all’iceberg, all’oceano della carne gelida di Rea, al suo cazzo che la penetra di tre quarti e si inabissa in quel corpo non più amato. Scava, raspa, deflagra. Il dito esce dall’altra parte, s’appoggia sull’acetato con un viscido squittio, N. socchiude per qualche istante gli occhi. Suo padre emette un fiato, timido sbuffo, insignificante. Sua madre sgrana gli occhi, zampe di scolopendra risalgono una mela, ciglia sottili: il lucido insetto è stato nuovamente trafitto dallo spillone.

“Come va con…?”

N. muove il dito su e giù attraverso il pomodoro, le pupille cercano la nascosta epidermide bianca di Luna, consolandola. Tra poco potranno congedarsi, e saranno di nuovo insieme, da soli.

“Insomma N., dovresti rispondermi, sono pur sempre tua madre. È da lunedì che non parli, che non mi guardi. Da lunedì … e tu non dire un cazzo eh, mi raccomando!”

Uno sbuffo inconsistente attraversa la cucina, trafigge l’afa, raggiunge il muro, allargandosi silenziosamente in ogni direzione possibile. Suo padre sembra morto, eppure vive, per merito di una qualche insondabile congiunzione astrale. Son dieci anni che lo danno per spacciato, ma lui vive ancora.

N. estrae l’indice dal pomodoro. Un gorgoglio liquido, lento rosso traballare, nessuno si accorge di nulla.

“Con Rea, mà? Mi chiedevi come va con Rea?”.

“E con chi se no?”.

“È incinta mà, incinta …”.

Con l’indice sinistro N. sporca di rossopomodoro Luna, le gambe della sedia restano impassibili. Arcuate, tornite. Brutta troia, non me lo meritavo questo. Non te lo meritavi, amore mio, dice guardo Luna, sempre là, ferma sul poggiaculo della sedia. Amore amore, amore è una parolaccia, limoni di raggi di sole. L’indice spinge il rosso, rosso sporcare. Gambe di legno avvampano, sole geometrico lingua lecca.

Sua madre fissa il vuoto oltre la finestra, ha smesso di masticare e si porta un tovagliolo alle labbra.

Suo padre ciondola verso il cesso.

“È incinta mà, incinta…”, dice N, prima di nascondersi Luna in tasca e alzarsi da tavola.

 

È sera. La giornata è finita, il lavoro andato. Anche oggi si è timbrato il cartellino. Rea affonda nel divano, a mollo nello spazio siderale. È in penosa processione verso galassie lontane, unte di morbosa apprensione. Un paio di slip da donna si attorcigliano attorno al cazzo di N., lui le chiama Luna, ha dato un nome a quelle mutandine, Luna. Rea è a pezzi. La realtà le trapassa il corpo, ciglia-baionette. Il suo uomo lavora di polso con araba lentezza, sfuma pallido nella penombra seppia, si sfrega il cazzo, lampada di Aladino.

Si chiama Luna, Rea, Luna. Ok? Luna. Devi chiamarla Luna anche tu, ok?

Rea lo guarda, guarda N., è terrorizzata e immobile come un palo nel vento. Quel gioco va avanti da mezz’ora. Le serrande cigolano, verde-cicala, serrate sulla stanza, è un mantra che non lascia via di fuga. Serrande: zanne di cavallo richiuse sul deserto asettico d’agosto. Rea si porta la destra sul ventre, il vestito azzurrino che lui le ha regalato mesi prima è troppo corto, ormai. Cosa ne sarà di te, piccolo mio?

Capisci Rea, capisci? Luna-slip-indispensabili-fata. Rea, che tu lo voglia o no, ascoltami… ascoltami Rea, è importante, importante per tutti. Io amo Luna, non te, che tu lo voglia o no, o no che tu lo voglia …

N. è a mezzo metro da lei, le fissa tremare la punta del naso tra i capelli. Un’ombra alle sue spalle si sega. Ritmo altalenante. Quei capelli. Sembrano sgorgarle dal centro esatto della testa per rovesciarsi come alghe sudate sul suo volto. N. si sputa più volte nel palmo e sulle dita della sinistra, le affonda nel tessuto, tende il collo, si alza sulle punte ogni volta che il movimento del polso accelera. È una bestemmia contratta quell’uomo, carica di bile lattiginosa. Dare gas e poi fermarsi di colpo, un solletico bruciante che risale dall’ano all’ombelico, si tocca così da sempre.

Le tette, Io e Luna vogliamo vederle. Leva tutto Rea, leva.

L’attesa tremante slingua le candele, traballano e muoiono una ad una, margherite funeree. Orgasmo molle e continuo che cola su sé stesso. Rea lascia cadere terrore dagli angoli della bocca, si incagliano come cera sulle piccole fossette e lì s’addormentano.

Traballa sul balcone il piccione di fumo, N. ne sente il lezzo oltre le serrande chiuse. Sa che è là. L’ombra sul muro va a fuoco, scoppietta. La candela non esiste più, se non come riflesso di sé stessa. N. urla. La sinistra scivola in tasca, affonda tra i rimasugli d’un mezzo pomodoro marcio, semini polpa carne figa pelo mondo luna pistola.

Rea piange, lo guarda, è fuori di sé.

Dammi quell’anello Rea, dammelo, non lo meriti, non lo meriti più. Se non ci vuoi entrambi, troia, non lo meriti…

Un grillo canta da qualche parte nella stanza.

Il muro va a fuoco, N. lo sa. Piange per lui, piange per tutti, per i semini, per il pelo, per l’inutile vestitino azzurro, per i suoi piedi molli, per Luna stretta al cazzo.

Sono le tre di notte, e un colpo di pistola sveglia il condominio in fiamme.

 

 

L’ospedale guarda N. attraverso la pioggia. Luna è appoggiata sul letto, profuma. L’occasione è delle più importanti. È felice. N. sa che lo sta osservando, devota, che gli sorride come un fiore fresco. Mia-moglie-e-la-mia-puttana-assieme-un-solo-nome-uno-solo-di-puttana-e-moglie-puttanatroia-solo-uno-solo-nome-insieme-mamma, sussurra piano, compiaciuto. Poi si ferma, si gratta il capo, immerso nel silenzio più totale, orecchie come tappi. Due piccioni con una fava, due due due due due. Sa che lei può leggergli nel pensiero. La porta è serrata dall’interno, anche con Vinavil e scotch, vuol essere sicuro che nessuno lo disturbi. E poi ci sono le chiavi nella toppa, certo. Non arriveranno mai in tempo, possono battere sul legno quanto vogliono. Ormai è deciso, ed è logico, ormai, che tutto avvenga secondo i piani.

Si avvicina a Luna, la raccoglie come un padre, se la porta alla bocca, piano la bacia con labbra tenere, la stende tra i palmi delle mani e la osserva, con amore. Non resiste e ne mordicchia un lembo candido. Dopo avremo tutto il tempo che vogliamo, dopo, amore…

Prende l’anello di fidanzamento di Rea, lei non lo merita più. Scava nei pantaloni con la destra, la affoga tra i rimasugli del pomodoro, si strozza il cazzo in pugno, è uno stelo che deve morire. Con la sinistra, come se lo avesse imparato in chissà quale altra vita, riduce Luna a un piccolo cilindro avvoltolato su sé stesso, una specie di tondino candido. Ne ferma poi un’estremità serrandovi contro le ginocchia, mentre con le prime due dita le fa scorrere l’anello di Rea attorno. Arrivato alla metà esatta lo lascia risplendere, reclinando appena il capo e osservandolo con fierezza. Un minuscolo sputo di commozione infrange il muro delle ciglia. Nella caduta verticale, la lacrima incontra uno schizzo di sperma, frangendosi in mille lapislazzuli salati. Marito-moglie-troia-marito-moglie-troia-marito-moglie-moglie-moglie…

Un minuscolo megafono, incagliato tra timpano e gengive, lo informa che è andato tutto liscio.

Un calcio sfonda il legno stanco della porta. Qualcuno entra. Lui spara alla cieca con chissà quale pistola. Gli agenti rispondono. Rea è all’obitorio. Mezz’ora dopo, sul suo corpo scende un telo nero.

 

Un racconto di Nubius Dee

Illustrazione di Verin

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