Il feto morto e l’alce artificiale

Gli animali sono liberi dalla frizione consumistica di cui noi uomini siamo soggetti continuamente.

L’alce è simbolo di libertà, è essenza psicopompa, quel passaggio che dalla condizione di schiavitù traghetta alla condizione di emancipazione. È animale potente, creatura protodivina, archetipo di forza arcaica, l’alce simboleggia il vortice, essere totemico che svela la verità, i suoi palchi sono le corna più grandi del regno animale – vere e proprie antenne che si connettono a una ragione superiore, mostruosa fucina di alito che si rovescia in boschi eterni, dentro foreste senza morte né decomposizione.

Abbiamo bisogno di alci che possano correre liberamente nei cortili delle nostre case, di alci che possano giocare coi nostri bambini tra le macerie di questa società al collasso, e abbiamo bisogno di venerarlo questo animale, venerarlo come una suggestiva magnificenza da sogno, realizzando zoomorfiche sculture nel marmo dei palazzi, ricreando habitat silvestri di nebbie azzurrine in cui le vigorose e fluide figure fantasmatiche e iperreali insieme possano gareggiare col proprio fiato, ultraconcrete ansimanti carcasse vive stantuffanti la nervosa esistenza palpitante della libertà.

Amanda mi ha detto che mio figlio nascerà tra poche settimane, lo sente. Scalcia come un forsennato quel prototipo di uomo, quella cavia uterina, un Homunculus nella caverna placentale di un corpo di donna rigonfio.

Voglio che mio figlio, dopo la nascita, rimanga immortale in un microcosmo di spensieratezza senza fine, in un habitat artificiale di libertà reale, la vita potenziata incubata in un presepe alternativo.

Non deve avere tempo, il bambino, di essere manipolato dalle direttive fuorvianti umane, deve essere subitaneamente introdotto nella sua artificiosa realtà che è artificiosa per noi, noi che viviamo la vera pantomima esistenziale, ma non lo sarà per lui, che potrà essere esente dall’assorbire come una spugna la regola stuprata del nostro sentire, quello sì indotto: cellulari, auto, rate da pagare, donne da conquistare, Messe ai morti, troie con la sifilide, genuflessioni a piramidi di prodotti inscatolati in ziggurat del consumo.

Mio figlio nascerà nella libertà, nel suo mondo oscuro e naturale di plastica plasmata.

Dentro l’alce crescerà mio figlio, animale guida verso una nuova spiritualità estranea agli impulsi condizionati, alla pubblicità, la scuola, i quotidiani, le recite scolastiche sul Natale, le fiabe come condizionamento psichico per l’addomesticamento sociale.

La mente inviolata di mio figlio sigillata nel proprio minuscolo corpo eterno e introdotto in matrioska semi-vivente nel ventre dell’alce sintetico eluderà la sorveglianza psichica del Progresso.

Anche se è difficile: siamo proni ai condizionamenti sociali fin dalla placenta. Il cervello di un bambino ancor vagante nell’utero materno assorbe gli input esterni come una mignatta che succhia il sangue incamerandolo per i periodi di digiuno e impara il linguaggio, distingue le parole, assimila i rumori, comprende le emozioni.

Ieri sono andato in bagno, ho acceso la luce e la lampadina ha cominciato a singhiozzare in preda a scansioni sincopate di flash dorati. Sono sicuro che è un messaggio, in qualche modo Loro si parlano in questo modo, ma hanno sbagliato un qualche tipo di tempistica, e io ho capito. Si mandano segnali mediante l’elettricità e io li ho scoperti. Sono come messaggi Morse modulati mediante la miosi e la midriasi delle pupille, vengono registrate le dilatazioni e le contrazioni e così sanno quello che penso, e se lo comunicano.

È una guerra psichica, quella in atto. Devo pensare a mio figlio – mio figlio sarà un nuovo tipo di prototipo di uomo.  L’alce sarà il mio cavallo di Troia. Grazie a esso salverò mio figlio. Li fotto.

La trasposizione degli ambienti naturali, della flora e della fauna in una copia artificiale scala 1 a 1 è la rappresentazione immaginaria di un dogma che l’umanità si è posto, ma in maniera bugiarda: la libertà. Ma grazie alla perizia tecnica, allo studio dei materiali, a un’equipe di prim’ordine, la riproposizione della realtà perviene a un quid che neanche la realtà possiede, trascendendo la condizione puramente terrena e assurgendo a simbolo che sa di allucinazione illuminante ed elevazione metafisica, quindi pregna di un valore assoluto.

Come direttore del museo di scienze naturali ho da mesi pianificato un nuovo ambiente nell’area est del museo, un’area che si trovava abbandonata, quella in cui le muffe sulle pareti comparivano come macchie fantasmatiche, impossibili da eliminare, ci abbiamo lavorato per mesi, ma le macchie rimanevano, quindi abbiamo affisso delle pareti di cartongesso. Quelle macchie: prendevano forme diverse ogni giorno, come ghirigori marziani, strane mostruose screziature che diminuivano o aumentavano in giorni alterni, assumendo forme pentacolari o inquietanti ramificazioni assomiglianti a radici che si ergevano in affreschi spinosi, diluite pozze arrizzate, puzzolenti geroglifici respiranti, rose di muro i cui petali si squadernavano dall’intonaco esfoliato. Questo sicuramente è un altro meccanismo con cui Loro cercano di tenerci sotto sorveglianza, controllandoci gli umori, cercando di carpire le nostre voglie, i nostri desideri, i nostri obiettivi. Ci osservano costantemente. Ecco, devo nascondere mio figlio da questa cospirazione indefinita ma palpabile, ne sento l’odore, trasuda da quei muri, l’odore assomiglia a quello dei peli bruciati e a una non specificata fragranza esotica, come il cumino, sicuramente sono indizi fuorvianti, sono gli inganni sensoriali che Loro impiegano per confonderci, in modo da incuterci paura, perplessità, in modo che tutto sembri una fantasia, un crudele inganno dei nostri meccanismi mentali. Ma io li ho scoperti. Io li fotto.

Il diorama finirà in breve tempo, me lo hanno assicurato i tecnici. L’alce, ho imposto ai tecnici, verrà tradotto a casa mia, prima dell’esposizione definitiva, devo apportargli degli accorgimenti, devo studiarne la fisicità, ho detto. I tecnici mi hanno guardato con aria perplessa, quasi timorosa, ma hanno abbozzato, si sono infilati i guanti di lattice e hanno continuato il lavoro, sotto i riflettori, nel quadrato di finta foresta fredda canadese, il cui orizzonte sono le pareti di cartongesso, le pareti di cartongesso che nascondono le muffe marziane.

Amanda mi chiama da parte, è venuta al museo mentre io sto sovraintendendo i lavori. È dura per me perché devo avere a che fare con artigiani e professori, nello stesso tempo. Il diorama è un lavoro minuzioso, quel che deve suscitare è una sospensione dalla realtà, un vero e proprio atto di magia – e le componenti dei modelli sono frutto di sempre più sofisticati studi sui materiali, sulla messa in posa, sulle luci. Ho richiesto personalmente un habitat in cui rientrasse l’alce, supportando la mia idea col fatto che i bambini sarebbero impazziti alla vista di un animale così possente, in una scenografia così suggestiva come i boschi decidui del nord, in prossimità di un fiume azzurrissimo.

Mia moglie mi arriva alle spalle quasi furtivamente, mi accorgo della sua figura panciuta all’ultimo momento. I suoi occhi sono sempre bellissimi, hanno una sfumatura lucida che si scontra col nero alabastrino dell’iride.

“Sono venuta a salutarti”.

La saluto con un bacio sulla guancia, le dico che sono presissimo. Osservo il suo stomaco prominente e una sensazione di ripugnanza mi assale la gola. Questa pantomima metamorfica della nascita mi dà la nausea a volte, questa mutazione in essere è un qualcosa che trovo fastidioso, questo continuo rincorrersi della specie, questo cambiamento organico indefesso. Mi suscita tutto ciò noia, e schifo. Prediligo la stabilità, la tassidermia emozionale il cui involucro dei pensieri rimane persistente e duraturo. Un amore immortale. La stabilità. La mummificazione degli attimi che così sono divini. Il divincolamento dalle strutture della società deve essere compiuto in maniera audace, e repentino. La società si evolve o involve continuamente, ci ha portati allo stato che sappiamo, a questo vuoto ideologico, a questa kermesse di usi e consumi, di programmi tv, di prostituzione, di droghe tagliate col Dixan. Sarebbe l’ora di FERMARCI, di fissare il punto, per un po’ di rimanere senza speranza, di separarci dalla corsa del mondo. Mia moglie muove il corpo tozzo nell’ampia sala della esposizione in costruzione, sfiora con le dita i tendoni pesanti che adornano una parete della sala per mimetizzare le porte che danno negli uffici privati, passeggia curiosa alle spalle degli artigiani che assemblano assi di legno, riproducono strati di vegetazione con materiale alloplastico, accarezza con un dito il muro in cartongesso di cui una parte sta per venire dipinta – già una specie di montagna sta sorgendo come una macchia indistinta, una macchia di Rorschach nel bianco di fondo – quella parete di cartongesso che nasconde le forme fantasmatiche, le muffe marziane. 

Non voglio che mia moglie passi da queste parti, ne va dell’influenza del bambino. Dovrebbe stare chiusa in casa, in tenuta stagna, cercare di non provocare modifiche al nascituro, ma Amanda non conosce il mio progetto, anche Amanda lo so, è una pedina del gioco che viene gestito caparbiamente da Loro. L’ho vista entrare nel bagno questa mattina, sul presto, e le luci ballavano il loro schizofrenico gioco Morse, gli avranno registrato i pensieri, speriamo che il bambino sia ancora protetto, nella placenta, nel suo caldo guscio umido nelle budella della madre.

Mia moglie mi fa un sorriso mentre mi saluta e lentamente si allontana, il corpo che dondola come una vecchia imbarcazione che oscilla per il fasciame rigonfio, varcando l’uscita a doppia porta del museo. Io ausculto appoggiando l’orecchio alla parete che mi si erge di fronte, il frusciare delle muffe all’altro capo del salone, il loro grattugiare osceno, il crepitio umbratile di qualcosa che germina e cresce e matura raschiando le mura, infettando l’intero palazzo, la struttura del palazzo che come un osso minacciato dall’osteoporosi lo sento sgretolarsi, mentre si effonde la malattia, e l’olezzo di peli bruciati e cumino mi assale le narici, e osservo la parete di cartongesso, contrito, la parete di cartongesso che nasconde la vista alle macchie fantasmatiche, alle muffe marziane.

Il salone principale del museo, quello in cui stiamo lavorando, è impreziosito da una serie di colonne sottili che si ergono fino al soffitto, una volta a cupola da cui si dipanano una serie di sculture floreali in stile liberty. Il palazzo venne costruito circa nel 1880, il progetto fu commissionato da un noto magnate dell’epoca, Ernesto Severini, che poi morì accidentalmente messo sotto da una carrozza. Si racconta che il corpo morente, calpestato dagli zoccoli, sfregiato dalle ruote, masticato dal fondale dell’abitacolo, venne portato all’interno di questo palazzo, e proprio in questo salone ora del diorama in costruzione venne adagiato sopra un mantello gettato in terra da uno dei suoi servitori. Il suo volto, si narra, era emaciato, la mascella storpiata, gli occhi cerulei mandavano bagliori di una paura senza confini. L’uomo riuscì a dire solo poche parole, quelle frasi banali che si dicono in punto di morte tipo pensate a mia moglie e ai miei figli o sotterratemi vicino al mare. Ma quel che passò alla storia, grazie a un tramandamento voce a voce tra i servitori e che assunse poi la prospettiva di una leggenda metropolitana, è che il suo volto si incartapecorì con una velocità sorprendente, e mentre i soccorritori lo osservavano, il volto cominciò a prosciugarsi, la pelle venne risucchiata dal teschio, la fisionomia emaciata e grinzosa si screpolò fino a disintegrarsi e del volto di Severini non rimase che il teschio, eburneo, ghignante e terribile. Il cimitero di famiglia era nella zona esterna di questo stesso edificio, e il corpo venne sepolto al cospetto della vecchia moglie, che pianse tutto il tempo durante il funerale, il volto sfigurato dalle lacrime e ottenebrato dal velo scuro a pizzi. Il corpo di Severini venne sepolto vicino a un albero maestoso, i cui rami si incurvavano come ossa rachitiche. Di quell’albero e di quelle tombe, ora non c’è più nulla. Il palazzo venne ceduto al comune e il comune all’inizio dalla metà del ‘900 ne fece un museo, perché gli uomini hanno bisogno di imparare dall’arte e dalla scienza anche se l’arte e la scienza non sono nient’altro che una propaggine di una falsità congenita, frutto di uno studio falsificato, quella nenia tumorale impartita dagli accademici. Di Severini rimane a identificarne la sua passata presenza un busto dalla fisionomia lignea nel corridoio d’entrata e gli stemmi della sua casata che decorano in ogni dove il palazzo. Lo stemma è un serpente che trapassa come una freccia i quattro quadrati di un scudo sormontato da una fiamma.

Ho sempre pensato che la storia di Severini sia completamente vera. La memoria popolare è saggia e la più difficile da sconfiggere. Il nobile Severini, il ricco e smargiasso uomo potente doveva da morto trasformarsi in metafora per tutti, con la sua dipartita. Dunque il suo corpo, la sua materia organica, il suo circuito di grassi e sangue, doveva capitolare in maniera orribile: tamponato da un cocchiere ubriaco e poi sfaldandosi come melassa al clima di un ambiente ustionante. Quella metafora divenne parte di me, era una parabola che mi illuminò completamente, e mi illuminò precisamente un giorno, in cui sentii proferire la storia per l’ennesima volta da un segretario del secondo piano, che catalogando i libri antichi ceduti dalla famiglia Severini, arricchiva la storia di particolari nuovi, alla luce di una di quelle lampade verdi, nell’odore stantio della carta vecchia e del legno degli scaffali.

Severini mi stava parlando dall’oltretomba, avvisandomi sul marciume della società, quel marciume di cui egli stesso aveva fatto parte, e per il quale morì nello strazio, risucchiato da se stesso. Quello che mi stava dicendo era di fermarlo questo deterioramento, di bloccare la fase evolutiva di questa società allo sfascio, di cristallizzare il tempo, di creare una nuova progenie che potesse svilupparsi in altro modo, abitando nuovi pensieri, creando un metafisico passaggio da qui a un non-so vergine. Mio figlio doveva essere il capostipite di questa nuova razza pura. Chi se no? Il fatto che Amanda rimase in cinta proprio nel periodo in cui ebbi l’ennesima rivelazione dalla bocca del segretario del secondo piano era inequivocabilmente un messaggio. Certo, Loro sono sempre pronti a carpire il mio segreto ma io sono furbo. Io, ne sono sicuro, li fotto.

Una mattina mia moglie ha forti dolore al basso addome, è come un formicolio mi dice, con fitte che le prendono la pancia e si estendono fino alle gambe. Decidiamo di andare all’ospedale, il dottor Fanucci la controlla, le fa una serie di esami, dice che non c’è nulla di anomalo, il bambino sta crescendo, si muove nella maniera giusta, ci rimanda a casa con degli antidolorifici leggeri facendosi assicurare da Amanda che non faccia sforzi, che se ne stia a casa, che si riposi, ci siamo quasi dice Fanucci, il bimbo vuole nascere.

Vuole nascere, penso. Un senso di nausea mi s’arrampica allo stomaco. Mi assale un forte mal di testa. Che vuole nascere lo dice il dottore, il bambino è costretto a nascere, è diverso. Molto diverso.

Il bambino nasce. Ma nasce morto.

Quel corpicino esangue dalla testa enorme, non ha emesso neanche un vagito. Le mani come piccole zampe di salamandra, il busto come una tuta di ectoplasma, è nato senza mai respirare. Problemi con la placenta, dice Fanucci. Forse è un messaggio anche questo. Il mio stato emozionale è innaturale. Faccio in modo che il corpicino venga avvoltolato in una serie di asciugamani e consegnato direttamente a me. Un corpo che non ha mai respirato non è degno di sepoltura, mi dicono. Gli troverò io l’alcova giusta. Mi faccio vanto della mia posizione sociale, un paio di telefonate alle persone giuste e il corpicino mi viene dato in custodia. Mi danno il permesso di seppellirlo contravvenendo ai regolamenti. Cosa ne farebbero, altrimenti? Forse lo farebbero a pezzi, come un mai-nato, come una locusta gigante uccisa nei campi dal diserbante, come un sogno di carne incompleta, come un pensiero spaziale deforme, come lo sbaglio organico di una società omologata guidata da altri pezzi di carne deambulanti, ma in cravatta.

Amanda ne rimane sconvolta, ha diverse crisi isteriche, rimane sotto stretta sorveglianza in ospedale.

Io invece mi ricordo di avere una ghiacciaia, nel sottoscala, che è perfetta per l’occasione. Non voglio che il corpicino deperisca. Il mio progetto ha preso una piega nuova, ma forse è quella più idonea, tutto sommato. Tra le salsicce e una fila di dodici costine inserisco il corpicino morto, preventivamente infilato in una sacca per surgelati.

Telefono ai tecnici, a Gerofante, il responsabile dei lavori. Si muovano con quel diorama. Che l’alce sia pronto in fretta, dobbiamo fornire lo spettacolo ai contribuenti, dobbiamo affascinarli, dobbiamo creare un mondo fittizio che sarà quello vero all’interno di questo mondo vero che in realtà è fittizio, quest’ultimo pensiero non lo dico a Gerofante, il vecchio non capirebbe, ci sa fare con l’organizzazione, meno con la propria coscienza, è stupido, siamo tutti stupidi, io ho solo avuto un’illuminazione.

Sento l’odore di peli bruciati, viene da dietro la parete di cartongesso, dalla muffa marziana, i miei vestiti ne sono impregnati, ma li fotto. Assemblerò il corpicino nel corpo dell’alce, è un connubio perfetto penso.

Quando l’alce mi arriva a casa trasportato dal furgone io sto origliando il balbettio elettrico della lampadina del bagno dalla parete del salone, tastando con i polpastrelli l’intonaco del muro che divide i due locali, percepisco la pulsazione elettrica codificata delle scansioni ritmiche del surriscaldamento del filamento di tungsteno. Qualche minuto prima avevo schiacciato l’interruttore dal corridoio e sono poi fuggito in sala, cercando di percepire i meccanismi di lettura della mente che andranno a vuoto, perché Loro non riusciranno a sfogliare i movimenti delle iridi. Nello stesso tempo ausculto il nervoso ronzio che insegue il corpo inesistente da cui poter assorbire informazioni.

Gerofante è venuto personalmente a casa mia accompagnato da due operai per consegnarmi momentaneamente l’alce. Gli dico di farmelo posare nel centro del salone. “Va bene”, mi dice, e stuzzica con la lingua il mozzicone di un sigaro spento sotto i baffoni bianchi. “Ma non capisco che cosa…”. Gli dico di non preoccuparsi. Devo fare un esame approfondito sulla scultura, gli dico.

Intanto una zaffata di peli bruciati e cumino mi assale le narici. Inghiotto visibilmente, mi faccio bianco come un cencio. Gerofante sussulta nel vedermi trasformato in un fantasma. “Qualcosa che non va?” mi chiede con la sua voce grattugiante. Niente, gli dico. Ma in testa e nei chemiorecettori resi sensibili penso a quell’odore che mi riporta al museo, alle pareti di cartongesso, a quelle pareti dietro le quali si annidano le muffe, le muffe marziane. Ma sicuramente sono indizi fuorvianti, sono gli inganni sensoriali che Loro impiegano per confonderci.

Faccio sapere a Gerofante che già domani potrà far ritirare l’alce, supervisionerò io ai lavori, lui può stare a casa. Mi guarda stranito, mentre io mi raccolgo e cerco di rassicurarlo con un sorriso. Voglio carpire i segreti di questi artisti del diorama, gli dico. Osservare da vicino quest’opera di artigianato, questo duplicato del reale, questo animale che sembra più vivo di quello che vive veramente, gli dico. Assaggiare la visione dell’immortalità da vicino, questo non lo dico, questo lo penso.

“Va bene, faccia lei”, Gerofante abbozza titubante a un saluto, sembra ingoiarsi una lamentela e fa una smorfia inquieta girandosi di spalle e uscendo con gli operai da casa. Sento il motore del furgone che si avvia e che si allontana.

L’alce posizionato di fianco al tappeto turkmeno arrotolato, accostato al secretaire di ciliegio e alle lampade a stelo alto in ottone e paralumi in vetro soffiato trasparente, la massiccia forma animale le cui corna che si proiettano ad angolo retto per poi divincolarsi in maestosi pettini giganti e che sembrano incendiarsi tra i baluginii delle fiamme del camino d’ardesia e assumendo i connotati incredibili di cortecce preistoriche, le froge dilatate come interstizi di pelle tra il coagulo allungato di carne che è il muso, questo imponente duplicato di fil di ferro, legno, resina e materiale polimerico nel mezzo del mio salotto sembra sussurrarmi il nuovo inizio che speravo, l’Apocalisse rivelatrice di cui lo stesso Severini ha fatto in modo che io ne divenissi parte nel meccanismo di attuazione, e più nessun gioco elettrico di scansioni dalla lampadina del bagno potrà vincermi, più nessuna muffa, nessuna muffa dietro la parete di cartongesso nella sala del museo, la muffa, sì quella: la muffa marziana.

Devo prelevare il feto dal congelatore e poi inserirlo nell’animale fittizio che però è più vivo di quello che vive veramente e poi il corpo minuscolo ed eterno di mio figlio eluderà la sorveglianza psichica del Progresso.

Ho visto come lavorano i tecnici al museo, ho fatto miei certi accorgimenti che usano nelle loro operazioni, mi sono procurato l’attrezzatura adatta, semplici strumenti per un’operazione banale, come infilare un diamante in uno scrigno. Indosso i guanti di lattice e li faccio schioccare sopra i polsi. La fiamma nel camino si muove a scatti, in maniera innaturale, mentre osservo il bagliore che si spande scontrandosi nelle sfere opaline con i grumi scuri che sono le iridi dell’alce che fissa con lo sguardo finto, quello sguardo come calcificato in un letargo pianificato, fissa le cose nel mio salone, essa stessa cosa ma non più cosa, ormai, non più solo cosa.

Mi assicuro che il seghetto elettrico funzioni alla perfezione, schiaccio il pulsante rosso e l’aggeggio produce un graffiante rumore rassicurante.

Il bambino intanto ormai sarà scongelato.

Sono sicuro, quando mi accosto vicino al diorama del museo, il diorama ormai completo e disponibile per la visione al pubblico, quando mi avvicino all’alce operato, attorniato da bambini che osservano affascinati e dai padri con macchine fotografiche e dalle giovani donne che scrutano con risolini soffocati, sono sicuro, avvicinandomi al ventre dell’alce, di sentire una specie di rumore gorgheggiante, e poi qualcosa che assomiglia a un fischio, a una specie di battito minuscolo, un raschiare nervoso, un gorgoglio sotterraneo. Il cadaverino e la proiezione fittizia dell’immortalità e della potenza animale stanno facendo germogliare qualcosa di nuovo. Il feto morto e l’alce artificiale. Qualcosa di stupendo, ne sono sicuro, qualcosa che spezzerà le maglie di questo controllo esercitato vita natural durante sulle esistenze umane, esistenze catalogate, studiate, indirizzate. La spesa a casa, le rate del telefonino, l’ipermercato, i negozi di arredamento, le pubblicità sul meteorismo. Qualcosa di nuovo sta nascendo, che sacrificherà la nostra vecchia condizione per un nuovo stato di cose, insegnandoci nuove condotte, rendendoci liberi.

Il diorama: il piccolo spazio evoluto della nostra coscienza, l’alcova di un nuovo avvenire, la Nazareth del futuro.

 

Un racconto di Alessandro Pedretta
Illustrazione di Alessandro Buro

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