Giochi col fuoco

Cinzia aveva portato i fiammiferi e le candele. Io avevo messo a disposizione il garage di mio padre, e a questo si sarebbe limitato il mio contributo.

Quanto a Ersilia, lei non aveva portato nulla.

Appena arrivata si era seduta a gambe incrociate sul pavimento – solo dopo essersi assicurata che non ci fossero macchie d’olio –, dopodiché si era messa ad armeggiare con il telefonino e aveva lasciato a noialtre il compito di disporre tutto l’occorrente.

Perché il «legamento d’amore» – come lo chiamava Cinzia – funzionasse, doveva esserci una candela bianca al centro, «per l’evocazione», e poi delle altre più piccole, da disporre in cerchio attorno a ciascuna di noi.

– Quelle piccole a cosa servono? – le avevo chiesto io.

Per Cinzia la risposta era ovvia: – Come protezione –. Dicendolo però si scottò le dita con un fiammifero, e io forzai una risata.

– A me questa storia puzza di satanismo, – dissi, sapendo che così l’avrei fatta innervosire.

Infatti Cinzia ribatté subito che Satana non c’entrava proprio niente.

– Allora da cos’è che dobbiamo proteggerci?

Lei si riportò gli occhiali in cima al naso, e ricominciò col suo tono affannoso, lo stesso che usava sempre anche alle interrogazioni. Disse che non si poteva fare troppo affidamento sul buon carattere di una dea. – Specialmente se per secoli nessuno si è preso la briga di venerarla –. Riprovò ad accendere un fiammifero. – A nessuno piace essere dimenticati, – disse, e poi, con un sorriso: – Tu come ti sentiresti se Ersilia e io cominciassimo a uscire senza chiamarti mai?

Avrei voluto risponderle a tono – una risposta da dura, del tipo: «troverei delle amiche migliori». Ma non ne avrei avuto il coraggio, e questo lo sapevamo tutte e tre, in quel garage. Così non dissi nulla. Le strappai di mano la scatola dei fiammiferi e mi misi ad accendere le candele al posto suo.

Ersilia sbadigliò. – Non cominciate, – disse solo.

Cinzia e io ci guardammo storto, al di sopra delle fiammelle già accese, e poi guardammo Ersilia.

Aveva gli occhi chiusi e le dita premute sulla tempia, e quello non era mai un buon segno.

 

Il «legamento d’amore» lo stavamo facendo per lei.

D’altronde tutto quello che facevamo, a quei tempi, lo facevamo per lei. Possibilmente, prima ancora che ce lo chiedesse.

Avremo sempre impressa nella mente l’immagine di Ersilia curva sul banco, che sbatteva le ciglia nella luce obliqua della prima ora. Aveva la pelle così chiara che una vena bluastra le affiorava su una tempia, e noi attribuivamo a quella vena – come un sottile fulmine blu – le tremende «emicranie» di cui soffriva. Quelle che le impedivano di rispondere agli sms per ore, o le facevano mancare una festa di compleanno per cui aveva già comprato un vestito bellissimo. Mi venivano le lacrime agli occhi, tant’era la rabbia e la delusione, ogni volta che una di quelle emicranie le faceva disdire all’ultimo minuto un’uscita programmata da giorni.

Credo fosse proprio l’imprevedibilità di quella maledizione a rendere la sua presenza tanto preziosa.

 

Di Cinzia, invece, avrei fatto volentieri a meno, ed era chiaro che il sentimento fosse reciproco.

Non perdeva mai l’occasione di mettersi in mostra. Trovavo patetico quanto si sforzasse per sembrare a tutti costi un tipo originale, come quando al rientro dalle vacanze di Natale aveva annunciato di essere diventata «neopagana». – Una strega, in pratica, – aveva spiegato, – anche se la questione è un po’ più complicata di così.

La questione era sempre complicata, quando si trattava di Cinzia, e infatti, senza che nessuno glielo avesse chiesto, aveva cominciato subito a istruirci su pentacoli, incantesimi e solstizi. Ersilia ed io l’avevamo presa in giro alle sue spalle per settimane, chiamandola come l’amica secchiona di Harry Potter.

Non mi ero mai sentita così vicina a Ersilia come in quel periodo. Stavo vivevo il mio personale momento di gloria da quando mia sorella aveva ricevuto in regalo l’abbonamento a Top Girl: ogni mese rubavo il nuovo numero e lo portavo a scuola per farlo leggere alle altre. Mi sembrava che Ersilia mi guardasse con un nuovo rispetto, in quei giorni, come aveva fatto con Cinzia quando era stata la prima della classe ad avere le sue cose. Trascorrevamo tutto il tempo dell’intervallo nascoste nelle scale d’emergenza, a ridere delle lettere che arrivavano alla rubrica Amica ginecologa, e a leggere articoli utilissimi come «10 tipi di bacio e i loro significati» o «Scopri l’ombretto giusto per ammaliare con lo sguardo». Grazie a quel mio nuovo ruolo di divulgatrice, Ersilia non poteva avere più dubbi su chi fosse la sua vera migliore amica. Di questo ero certa, almeno fino alla festa in piscina, quando Cinzia, incredibilmente, riuscì a darle prova dei suoi poteri.

 

All’epoca parlavamo ancora con Ilaria Passalacqua, di tanto in tanto. Non che la considerassimo parte del nostro gruppo. Eravamo tutte d’accordo che fosse un po’ zoccola perché quando quegli assatanati della nostra classe le mollavano uno schiaffo sul sedere, lei rideva, senza sollevare la minima protesta, a differenza nostra che invece correvamo alla cattedra a lamentarci. Comunque Ersilia doveva averle riconosciuto una certa autorevolezza in fatto di ragazzi, perché un giorno aveva deciso di confidare anche a lei la sua cotta per Filippo Smaldini, il ragazzo più alto della IIIC.

La cosa naturalmente doveva rimanere segretissima. Ilaria aveva dovuto giurare di non ripetere ad anima viva quello che aveva sentito, «possa un fulmine colpirmi e uccidermi all’istante, se lo dico a qualcuno».

Quest’ultima era stata un’aggiunta voluta da Cinzia, che anche in quell’occasione non aveva sopportato di restare nell’ombra.

Il giuramento avvenne qualche settimana prima della festa in piscina per il compleanno di Ilaria. Era l’evento più atteso prima della fine della scuola. Ma malgrado il favore del meteo, quando il momento della torta era ancora troppo lontano, dall’orizzonte cominciarono a staccarsi nuvoloni scuri. Fu per tutti una gran delusione quando il temporale si abbatté sulla festa, ma nessuno reagì come Ilaria. Per molto tempo gli invitati non avrebbero dimenticato l’immagine della festeggiata che correva dentro casa piangendo a singhiozzi, al primo rombo di tuono.

 

La fiamma della candela più grande aveva cominciato a vibrare. Sembrava sul punto di spegnersi, ma poi si impennava di colpo, mandando scintille. Per Cinzia quello era il segno inequivocabile che l’invocazione era andata a buon fine.

Io non avevo dubbi che a muovere la fiamma fossero solo gli spifferi che si infilavano sotto la saracinesca. Non c’era nessuna antica dea celtica tra noi, ad aggirarsi invisibile nel garage di mio padre. Ma ricordo lo stesso il brivido che mi si arrampicava addosso ogni volta che il lenzuolo dietro di me mi sfiorava la schiena. Allora, sentendomi una stupida, dovevo ricordare a me stessa che era solo un vecchio lenzuolo pieno di polvere: mio padre ci copriva gli scaffali dove teneva le sue cose “da padri”: cassette degli attrezzi, latte di vernice, bombolette di pesticidi.

Possente Dea, Amica delle Fanciulle, – dovevamo ripetere, intanto, tenendoci per mano, – ascolta la nostra richiesta

Cinzia sembrava l’unica a non vergognarsi neanche un po’ di pronunciare quelle formule. Calcava ogni parola in un modo che mi infastidiva, come quando ripeteva i verbi irregolari inglesi. Non sopportavo di doverle stringere la mano sudata per tutto quel tempo e fui contenta quando finalmente potemmo scioglierle. Era arrivata l’ora di cominciare sul serio.

Ersilia srotolò il biglietto su cui c’era scritta la sua parte. – Dea dell’Amore, Signora dagli Occhi Folgoranti, – cominciò a leggere, e anche i suoi occhi brillavano, come prima di una battuta maligna. – Come fonde la cera di questa candela, fa’ che si sciolga per il me il cuore di Filippo

Ad ogni parola di Ersilia, Cinzia annuiva, e nel guardarla provai una fitta d’odio. Su quella faccia, su cui tremolavano i riflessi arancioni delle candele, c’era lo stesso sorrisetto compiaciuto di quella mattina nelle scale d’emergenza, quando Ersilia mi aveva chiesto di non portare più a scuola i Top Girl di mia sorella.

Cara dottoressa, avevo cominciato a leggere, a bassa voce per combattere l’eco, Il mio ragazzo vorrebbe che gli praticassi del sesso orale ma… prima ancora che avessi cominciato a leggere il consiglio dell’esperta, Ersilia mi aveva posato una mano sul polso: – Basta, – aveva detto, – Adesso comincia a fare schifo.

– Sì, – aveva detto Cinzia. – Non portarlo più.

Ed entrambe mi avevano guardata come se l’autrice di quella lettera fossi io. Mi avevano guardata come guardavamo Ilaria Passalacqua quando uno dei maschi della classe le toccava il sedere, e lei non sapeva far altro che ridacchiare.

 

Dea dell’Amore, Tessitrice di Inganni, come annodo questi due fili

– Lo sta dicendo troppo velocemente, – sentii sussurrare.

– … Fa’ che le loro anime siano per sempre legate.

Se non funziona sapremo di chi è la colpa…

Mi misi ad annodare i due fili di lana rossa, come mi era stato detto, ma avevo le mani sudate, le dita che tremavano per l’irritazione. Non vedevo l’ora che quella stupida recita finisse. Era il garage di mio padre, quello, e a quel punto non desideravo altro che se andassero. Tutt’e due. Al diavolo Cinzia. Al diavolo anche Ersilia, pensai, anche se quel pensiero era inammissibile e spaventoso.

Cinzia sospirò. – Da’ qua –. Si sporse per strapparmi i fili dalle mani, e io mi alzai di scatto, fuori dalla sua portata. Li appallottolai e glieli gettai in faccia.

Quando scavalcai il cerchio di candele, Cinzia strillò. – Non si esce mai dal cerchio magico! Mai, per nessun motivo!

Le urlai che ero stanca di quelle regole inventate, e Cinzia allora si rivolse a Ersilia: – Lo vedi, sta rovinando tutto!

Ma Ersilia non la stava a sentire. I suoi occhi erano fissi su un punto oltre le nostre teste, mentre la luce delle candele le illuminavano il viso assorto, la vena blu che le correva sulla tempia.

Né io né Cinzia ci eravamo accorte di niente.

Prima del crepitio delle fiamme, sentimmo solo il fragore della saracinesca che veniva sollevata per metà. Vedemmo una striscia di asfalto imbiancato dal sole, poi le punte dei capelli di Ersilia che frustavano l’aria. Un secondo dopo era scomparsa.

Era scappata senza un gemito, senza nemmeno una parola.

Mi guardai le spalle, e allora vidi il lenzuolo bianco. Ora si stava tingendo di marrone, man mano che il fuoco risaliva. Ne restai affascinata. Pensai ai fogli di carta che immergevo nel caffè per farli sembrare pergamene antiche.

Ricordo che a quel punto Cinzia mi strattonò il polso e finii sul pavimento. Questo solo un attimo prima di quell’enorme boato, come un tuono scoppiato al chiuso.

 

L’incendio provocò abbastanza danni perché il giornale locale se ne interessasse. Un articoletto in prima pagina elogiava l’eroico vicino che stava lavando la sua macchina, lì nei paraggi, e che era accorso subito con l’estintore che teneva sempre pronto in garage.

Cinzia ed io avevamo rimediato solo piccole ferite, là dove ci avevano colpito le schegge della bomboletta esplosa, ma avevamo inalato parecchio fumo. Ersilia, che invece era fuggita illesa, dopo il disastro si chiuse in casa.

Non si fece vedere né sentire per tutta l’estate, come se il fuoco l’avesse sfigurata e non avesse più il coraggio di mostrarsi in pubblico. Né io né Cinzia ricevemmo una sua visita in ospedale.

Insistevamo per parlarle, all’inizio, ma quando telefonavamo sua madre ci rispondeva – in tono sempre un po’ meno gentile – che aveva l’emicrania e che stava riposando.

Arrivò settembre, e a quel punto fu chiaro che ci stava evitando. Anziché darci appuntamento alle scale d’emergenza, come faceva sempre, passava la ricreazione davanti ai distributori delle merendine, in compagnia di Ilaria Passalacqua e di altre ragazze che aveva sempre giurato di detestare.

 

RAGAZZINE GIOCANO COL FUOCO, avevano scritto sul giornale, e anche se per legge non avevano potuto riportare i nostri nomi, tutti sapevano che eravamo state noi a rischiare la vita per “uno scherzo di Halloween fuori stagione”.

Ma c’erano anche storie alternative. A scuola cominciò a imporsi la voce che Cinzia fosse una satanista, che anche io lo ero, e avevamo attirato Ersilia in quel garage con una scusa, per farne la vittima di un sacrificio.

Col passare delle settimane, il clamore per l’incidente andò sgonfiandosi, e i più si dimenticarono del mio coinvolgimento. Scivolai via da quella storia, come se non ci fossi mai stata.

Cinzia invece continuò a essere un bersaglio.

I maschi si toccavano lì sotto ogni volta che la vedevano, le ragazze facevano le corna, o si aggrappavano alle gambe di ferro dei banchi. Si diceva che bastasse un suo sguardo per rimediare un brutto voto all’interrogazione o una caduta.

Quei gesti scaramantici erano troppo plateali perché Cinzia potesse non accorgersene, ma non disse mai niente. Ormai parlava solo per rispondere alle domande degli insegnanti. Durante la ricreazione se ne stava seduta al banco, apparentemente troppo impegnata ad anticiparsi i compiti del giorno dopo per fare caso alle prese in giro.

 

Anche se sono passati molti anni da quando la frequentavamo, ogni tanto ci capita ancora di parlare di Ersilia.

In realtà non facciamo che ripeterci. Non possiamo che tornare sempre sugli stessi aneddoti, visto che non sappiamo più quasi nulla di lei da quel pomeriggio d’estate, quando è scappata dal garage di mio padre.

Abbiamo scoperto che ha lasciato gli studi. Ha aperto da poco un negozio di abbigliamento, ma nessuna di noi ha voluto avvicinarsi a dare un’occhiata alla vetrina. Non si è sposata. Non sappiamo se adesso abbia qualcuno.

È curioso, comunque, il modo in cui il suo nome torni sempre nelle nostre conversazioni, anche se solo di sfuggita. È come ripensare al mostro di una storia che ha smesso di farci paura. O a un brutto morbo infantile che abbiamo già sconfitto da piccole e dal quale ormai siamo immuni. Qualcosa che suscita tenerezza, forse persino gratitudine.

 

Basta una candela accesa sul tavolino di un bar, o il profumo della citronella contro le zanzare, per farci ripensare al «legamento d’amore».

Io continuo a sostenere che debba esserci un po’ di sangue di strega, dopotutto, nelle vene di Cinzia.

Lei si schermisce, dice di non ricordare. Ma io lo ricordo benissimo: se non mi avesse strattonato e tirata giù per terra con lei, probabilmente non sarei qui, ora, o non avrei più potuto riconoscere la mia faccia allo specchio. Cinzia non poteva sapere delle bombolette di pesticida. Come spiegare quel gesto, a pochi secondi dallo scoppio, se non chiamandolo premonizione?

 

Una cosa che entrambe amiamo ricordare spesso è come è iniziato per noi il liceo.

Quel primo giorno in una scuola nuova, in mezzo a tante facce mai viste, il mio cuore perse un battito nel vederla varcare la soglia dell’aula. Io stessa fui sorpresa da quel che provai, visto che ormai non ci parlavamo da un anno. Senza più Ersilia a tenerci unite, non sembrava avessimo più nulla da dirci.

Ma quel giorno rieccola lì. Cinzia era cresciuta ancora di qualche centimetro. Portava i ricci sciolti, a coprirle la faccia, e forse fu per quello che mi sembrò tanto diversa.

Non osava guardare più in là delle prime file di banchi.

Io aspettai pazientemente che si accorgesse del mio sguardo. Poi, quando finalmente mi vide, in fondo all’aula, e accennò un sorriso, battei con la mano il banco accanto al mio. Volevo farle capire che lì c’era un posto libero, se lo voleva, ma forse fui io a capire, con quel gesto, che avevo tenuto un posto per lei sin da quando ero arrivata.

 

Un racconto di Raffaele Cataldo

Illustrazione di Alessia Arti

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