Ombra

Te lo ricordi? Ci arrivavamo sempre con lo stesso autobus, che quasi era notte, eravamo sempre da soli, sugli stessi sedili lì in fondo e l’autista prendeva sempre quel cazzo di dosso a una velocità folle, che l’autobus sembrava spezzarsi a metà, e noi sballottati da una parte all’altra, ma ridevamo come se non ce ne fregasse nulla.
Era buio, scendevamo al capolinea. Tiravi fuori il pacchetto di sigarette e come al solito me ne offrivi una, e io come al solito rifiutavo. Altro giro di risate.
Camminavamo sempre più veloci, ma senza correre. A te veniva il fiatone alla quinta falcata. Io a ridere. Ma stavolta da solo.
Quando arrivavamo toccava aspettare che te ne fumassi un’altra. Io ero nervoso, perché ancora non avevo imparato a scavalcare. Le inferriate erano alte e appuntite e non riuscivo mai a capire come mettere bene i piedi, le mani, il corpo, gestire il peso, fare leva con un braccio e poi con la gamba; molte volte rimanevo giù, non me la sentivo. Tu andavi e io ti aspettavo per un’ora, un’ora e mezza.

Quando riuscivo a farmi forza, e tu mi guidavi a voce, mi dicevi passo passo cosa fare, e io non so come né perché ti davo retta, riuscivo a scavalcare, sano e salvo; ci ritrovavamo entrambi dentro al Luna Park.
Era un posto immenso: una città fatta di piccole casupole basse, e binari, siepi ed eucalipti immobili, una città notturna e silenziosa, senza vita all’apparenza, eppure nessuna aria di sfacelo; qualcuno, forse, la teneva in vita, durante il giorno – mentre noi eravamo a chilometri di distanza, in un’altra città, una città più viva, ma per noi invisibile; noi, il giorno, dormivamo. Ci svegliavamo solo al tramonto. Per quel periodo, la nostra vita è stata soltanto lì, al Luna Park.

Ogni attrazione era fuori uso, ogni insegna o lampione erano spenti. La nostra prima tappa era il praticello davanti al labirinto degli specchi. Ci sdraiavamo sulla schiena e guardavamo il cielo. Tu continuavi a fumare. Io non potevo sopportare la vista delle stelle, stando così, immobile, in contemplazione; mi alzavo di scatto e cacciavo un urlo, per farti incazzare. Aggrottavi la fronte, ti toglievi la sigaretta di bocca e mi facevi segno di stare muto. Poi cacciavi una bestemmia sottovoce. Io mettevo la testa tra le ginocchia e ridevo, ridevo fino a farmi venire il singhiozzo.

Dopo ce ne andavamo in giro, sempre un po’ impauriti dal poter incontrare qualcuno: non un custode, visto che il posto era da anni in completo abbandono, piuttosto da qualche altro poveraccio come noi, che avrebbe magari reclamato il diritto sul suo territorio. Eravamo due buoni a nulla, io e te, e non eravamo capaci di difenderci nemmeno dai ragazzini. Capaci solo di ciondolare, bere, sparare stronzate, e tu di fumare e scavalcare.

Ti ricordi quella notte di metà giugno?
Riuscii a scavalcare senza che tu mi rompessi il cazzo coi tuoi “il piede qui, la mano lì, fai forza solo con le braccia”, e ci ritrovammo dentro al Luna Park che era quasi mezzanotte. La luna era quasi piena. Sdraiati sul praticello, dopo un paio di tiri, mi dicesti di aver visto un’ombra muoversi sotto al botteghino di una giostra per bambini. Io ti risposi che non era possibile. Anzi, prima ti presi per il culo un bel po’, facendoti credere di averla vista anch’io. Solo dopo qualche minuto ti dissi che non era possibile.
Non ci fu modo di convincerti: iniziasti a dire che poteva essere un sorvegliante, ma sapevamo che lì, di sorveglianti, non ce n’erano mai stati dal giorno in cui il posto venne chiuso. Poteva essere qualcuno come me e te, sì, questo sì, ma il Luna Park era sterminato, e potevamo spostarci come avevamo sempre fatto in questi casi, che naturalmente non ci hanno mai portati a nessun tipo di guaio. Ma tu, quella volta, eri certo di aver visto qualcuno, sotto a quel cazzo di gabbiotto: “un’ombra lenta e larga, una testona di ricci, un corpo tozzo e rivoltante”, dicesti, e io a chiederti come avessi fatto a vedere tutte queste cose in un’ombra.

Ci spostammo su una panchina, di fronte a quella che fu una casa degli orrori. Era la costruzione più alta del Luna Park. Fatta di legno, con un recinto bianco e siepi basse sul davanti, finestroni dai vetri rotti, una porta scardinata, un patio di legno scuro; la zampa di un enorme ragno peloso che sbucava dal grosso tetto sbilenco. Un’altra sigaretta. Feci finta di strappartela dalla bocca e tu, di riflesso, per poco non mi bruciasti le dita. Poi, di nuovo: mi dicesti di aver visto l’ombra, ancora lei, muoversi sotto al botteghino della casa degli orrori. A quel punto rimasi in silenzio per qualche secondo. Poi ti mandai a fare in culo. Mi alzai e me ne andai verso il laghetto, dove c’erano i binari del treno-bruco.

“C’è davvero qualcuno”, urlasti, dandomi una manata sulla schiena, e poi indicandomi un alberello sull’altra sponda del laghetto. Io me ne stavo con gli occhi bassi a veder guizzare qualche pesciolino nero; alzai la testa e sull’altra sponda una strana figura tozza e dal capo riccioluto sembrava essersi materializzata. Ci stava fissando. Ti dissi di fare dietrofront, ma senza correre. Avremmo dovuto camminare lentamente. Parole sprecate: scattasti come caricato a molla, ti sentivo tossire mentre correvi a fatica verso il labirinto degli specchi. Mi voltai di nuovo verso l’ombra sull’altra sponda del laghetto – ma era sparita.

Sono rimasto a cercarti per un paio d’ore. Da qualche parte ho trovato mozziconi di sigaretta, ma non ero sicuro fossero tuoi. Mi sono ritrovato a piangere e a urlare il tuo nome. Poi, per paura, mi sono nascosto dietro una piccola siepe che sta proprio vicino al punto dove scavalcavamo per entrare.

Tornai al laghetto. Sull’altra sponda non c’era nulla. Nessuna ombra. Mi girai di scatto: sotto il botteghino del treno-bruco c’era lei. E c’eri anche tu, lì accanto. Mi facesti un cenno di saluto, poi di corsa verso la casa degli orrori. Anche tu eri un’ombra. La figura tozza e riccioluta rimase ferma. Il capo poggiato sulla mano, il gomito sul bancone. È lei, è proprio lei, sussurrai. Mi misi a ridere. Eravate di nuovo insieme.
Te lo ricordi?

 

Un racconto di Stefano Felici

Illustrazione di Melissa Brusati

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