Policicchio per Ferrone, Vanità

PÁN

Una notte ho sentito una cicala che cantava.

Quando il giorno è finito da un pezzo e il mare un oceano di occhi spenti. Sono stesa all’aperto a contare le stelle, è una conta infinita, mi capita infatti di ricontare quelle già contate e saltarne alcune che non ho ancora numerato, quando arrivo oltre il cento va a finire che devo ricominciare da capo, forse è vero allora che le stelle sono infinite.

Un tintinnare ovattato di grilli scende giù per la vallata, tutta, buia, e la ricopre. La pausa di uno è colmata dalle migliaia di cri cri degli altri e insieme questo rumore diventa un amalgama omogenea di silenzio che fa galleggiare il mio pensiero come una lanterna in alto mare. Mi lascio portare alla deriva dalla corrente finché in lontananza mi appare, terso, il volto che potrei giurare essere il volto della Madonna, così luminoso da essere evanescente. La seguo con un moto bulbare lentissimo mentre la mia gola si riempie di aria che mi fa respirare e chiudo gli occhi lasciandomi sprofondare nelle acque più nere ricolma della pace del tutto, quando. Quando ad un certo punto rientro nel mio corpo steso sotto ad un manto di pianeti oggettivamente inquantificabili e mi accorgo che nell’armonia del cuore dell’universo c’è un battito che va controtempo.

Si sente non troppo in lontananza una cicala cantare nella notte.

La cicala. È un animale che in molti non hanno mai visto, ma il suo cantare, quello sì, lo abbiamo udito tutti quando si riversa deciso e prepotente tra le pinete, gli uliveti e i boschi di sughero, o tra i viali di platani di cui si sente l’eco quando in città non c’è più nessuno, quando il sole batte forte, basso e il loro canto assomiglia ad uno scrosciare di cascate.

Quella notte ho sentito una cicala che cantava e sono certa fosse il suo ultimo atto di vanità prima di morire. Dopo aver cantato tutto il giorno, resistere fino a sera e aspettare il buio per intonare stremata alla corte della notte. Quando sono i grilli a farla da padrone, lei, diventa impercettibile. Eppure, facendo attenzione, districandosi tra un cri e un altro cri, si sente il vibrare della cicala stanca. La si riconosce grazie all’attrito dei suoi timballi e alla risonanza che crea con un apparato fatto di camere d’aria, riuscendo a creare un inconfondibile impulso acustico. E così la cicala intona il suo ultimo canto disperato, mentre la morte sopraggiunge su di lei che ha voluto sfidare le leggi di natura volgendo la sua eco non alla riproduzione ma rimanendo sveglia insieme al cauto gemere dei grilli per il solo piacere del farsi sentire, per non rimanere nell’indifferenza del giorno essendo una tra tante, per far sentire il suo frinire, risultato di un fine e complesso meccanismo di cui solo lei è dotata nel regno animale. E così sforza i muscoli oltre ogni possibilità tende le lamine che ricoprono il suo ventre ambrato, e si rigonfia e suona ancora e ancora, resiste, ed io la sento ogni minuto diminuire, rallentare la sua frequenza.

Mentre l’ascolto la vedo in sogno. Il suo corpo è sfinito, ma l’aura morbida che si vede intorno alla luna quando c’è foschia le infonde coraggio, e mentre la vede così grande, pensa che vorrebbe essere proprio come lei, come la luna, che si vede sempre da ogni punto della terra.

Ho perso il conto di tutte le stelle che vedo da quaggiù, mi rendo conto che nemmeno lo voglio sapere davvero quante sono nel cielo. Preferisco non scoprirlo, così domani potrò contarle di nuovo e immaginare che siano infinite, come dicono tutti. Mentre faccio questi pensieri, mi sembrano così grandi da farmi sentire infinite volte sola come una stella, apparentemente vicina alle altre e invece lontana anni luce. Chiudo gli occhi rimanendo sospesa tra la notte e la terra, tenendomi a galla con un movimento di braccia circolare e quando li riapro cado giù risvegliandomi all’improvviso con quella sensazione del precipitare.

Mi accorgo che la cicala ha quasi smesso il suo canto contro la sua volontà. Esistono forze in grado di emanare un’energia tale, sotto le quali anche la volontà, pur essendo forza essa stessa, si deve piegare. Sono forze che non hanno a che vedere con le leggi della fisica, esistono e basta, definendo l’ordine di tutte le cose, facendogli prendere direzioni definite e finite. La vanità è certo un atto di resistenza all’infinito scorrere inesorabile, come la cicala più volte ci ha insegnato.

Si sente leggermente il suo frinire, tra uno e un altro passano dei minuti piano piano sempre più lunghi, tanto il tempo è relativo. E mentre si oppone all’ammutolire notturno, la luna in un pianto d’argento sparisce, mentre io compongo accanto a me una piccola torre di sassi levigati che rimane in piedi soltanto grazie all’equilibrio su cui si regge il mondo, per cui se qualcosa crolla, qualcos’altro si compone, e viceversa. Ed è quando pongo l’ultimo sasso, il più piccolo, in cima alla colonna, che sento il canto della cicala scomparire, affogato nello stridere dei grilli.

Un racconto di Lavinia Ferrone

Illustrazione di Angelo Policicchio

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